sabato 14 aprile 2012

Caffè letterario.


Non so bene per quale motivo io sia entrato in questo locale, forse soltanto per cercare di mettere in difficoltà la mia naturale avversione per i luoghi pubblici, gli ambienti spesso affollati di persone, molte delle quali, come per una regola non scritta, proseguono, specialmente in caffè come questi, a ridere e a parlare a voce alta, indifferenti all’importanza del silenzio ed al rispetto per l’individualità, a favore di un finto socializzare che si respira qui in ogni angolo. Probabilmente sono io che sbaglio, penso senza soffermarmi sui particolari, così mi siedo ad un tavolo libero e lascio che mi servano una birra chiara, mentre guardo attorno a me le facce e le espressioni dei presenti. Bevo un sorso dal bicchiere, osservo le luci dell’ambiente, le pareti adorne di manifesti pubblicitari d’epoca, il bancone del bar, bene in mostra, massiccio ed invitante, proprio come immagino dovrebbe essere.
Mi piacerebbe attrarre l’attenzione di tutti, magari con un semplice: scusate, detto a voce alta e lasciato lì, mentre vagheggio nella mia mente di sollevarmi in piedi, di fingere imbarazzo per la mia intromissione nei discorsi di tutti i presenti. Con calma, ma con determinazione, potrei tirare fuori qualcuno dei tanti fogli che affollano da sempre le mie tasche, e schiarendomi la voce, presentare con semplicità una delle cose scritte da me, magari messa insieme chissà quanto tempo indietro, oppure il giorno stesso, fingendo fosse scritta proprio per questa irripetibile occasione. Sono poche frasi, direi con bonarietà; quasi delle stupidaggini a cui dedico il mio tempo, che forse possono apparire interessanti, non so, magari possono addirittura piacervi. Così inizierei a leggere quelle poche righe, con la mia voce non impostata, gli occhiali calzati sul naso, le mani che non tremano nel sorreggere quei fogli, anche se dovrebbero, lo pensano già tutti.
Qualcuno probabilmente volterebbe subito le spalle, riprendendo a ridere e a parlare, ma altri, magari quelli più vicini a questo mio tavolo, forse rimarrebbero in silenzio, prestando attenzione alle mie parole, quasi rispettosi della regola per cui è quasi doveroso ascoltare chi si prende la briga di dire così le proprie cose. Io, dal mio lato, snoderei piano quelle frasi, cercando il più possibile di darne già nel suono una piccola interpretazione, calcando qualche termine forse più importante, sorvolando su altri, come per definire la differenza di significato tra qualche parola e qualcun’altra, quasi incoraggiando la comprensione dell’insieme. Infine mi fermerei, all’improvviso, e dopo una breve pausa di immobilità, direi: grazie, per la vostra cortese attenzione, e tornerei a sedermi, sistemando i miei fogli e tracannando un nuovo sorso dalla mia birra.
Forse qualcuno applaudirebbe, e due o tre verrebbero al mio tavolo per chiedermi qualcosa, magari il mio nome, o altri particolari su quanto hanno ascoltato. Poi tutto ritroverebbe velocemente il suo decorso naturale, ma tutto questo aprirebbe un piccolo spiraglio all’interno dei luoghi comuni e tra le abitudini di sempre. Forse il proprietario del locale si presenterebbe a me, stringerebbe la mia mano, senza indugio mi incoraggerebbe a tornare ancora altre volte dentro al suo caffè a leggere qualcosa. Mi schernirei, naturalmente, però sono sicuro che riuscirei ad apprezzare appieno tutto quanto.
Invece, al contrario di quanto immaginato, ho finito la mia birra, mi sono alzato in piedi, e con la testa un po’ ovattata ho guadagnato l’uscita, non visto da nessuno, ma giusto in tempo per sentirmi quasi intimare qualcosa alle mie spalle: signore, ha detto quello che fino ad un attimo prima stava dietro a quel grande bancone; si è dimenticato di pagare.
Bruno Magnolfi

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