giovedì 26 agosto 2010
Nel cortile polveroso di sempre
I caseggiati attorno al grande cortile erano quasi tutti uguali, composti da tre o quattro piani e con delle terrazzine perennemente ingombre di panni stesi ad asciugare. Nei pomeriggi c’erano sempre i bambini a giocare in quel cortile, ma al mattino appariva sempre irrealmente silenzioso, con quei quattro o cinque alberi polverosi con le radici affondate dentro a un’aiuola di terra in mezzo alla ghiaia, ai sassi, al cemento e a qualche panca di legno.
Lo vidi lì la prima volta: fermo, appoggiato ad un muro, i capelli neri, la sigaretta in mezzo alle dita. Doveva essere uno dei nuovi inquilini degli appartamenti più piccoli, pensai, quelli all’angolo, ma uno così tra quelle case non si era mai visto. Anche una povera donna come me doveva pur dare un’occhiata ad un bel ragazzo, e così feci, mentre continuavo a stendere i panni sui fili lungo il terrazzo.
Poi mi cadde una federa, ma non lo feci apposta, fu per una distrazione casomai. Scesi alla svelta, corsi di sotto, aprii la porticina in fondo al corridoio buio alla fine delle scale, lui era ancora lì, nella medesima posizione. Si volse, al rumore che provocai, lui assieme alla sua sigaretta. Mi osservò senza interesse, forse, e io con titubanza avanzai verso la federa, disposta a giustificarmi mille volte per ciò che ero costretta a compiere.
Così da vicino mi parve ancora più bello di come lo avevo visto dal mio terrazzo: lui continuava ad osservarmi, sorrise leggermente con un angolo della bocca, io mi inchinai per riprendere la mia biancheria ad una distanza di non più di cinque o sei metri. Rallentai ogni movimento, lasciai che lui osservasse per intero ciò che stavo facendo, come in un piano cinematografico dove ogni dettaglio era studiato, messo a punto, esatto: presi la federa con una mano, mi sollevai e restai ferma, in piedi, lì davanti a lui, gli occhi negli occhi, poi dissi: buongiorno, sottovoce, senza alcuna convinzione, come per cercare qualcosa che mi desse respiro, che dimostrasse che ero viva, non una proiezione dei pensieri di quando ero ancora sopra al terrazzo.
Lui non cercò neppure di dire qualcosa, continuava semplicemente ad osservarmi con quel suo sorriso ammiccante, ed io pensai di svenire e cadere per terra pur di vederlo muovere da quella posizione statuaria. Nello stesso attimo pensavo di chiedergli qualcosa, ma mi trattenevo nel terrore di rompere quel fragilissimo incantesimo che si era creato.
Poi abbassai gli occhi, vidi il grembiule a quadretti che avevo ancora addosso e con il quale in genere accudivo alle mie faccende di casa, guardai la federa che avrei ancora dovuto lavare, e mi venne da ridere, senza alcuna possibilità di trattenermi. Gli ridevo in faccia, mentre ancora mi guardava, a lui e a tutto il suo essere bello in un posto dove per forza risaltava, anche se non ci stava a far niente, dove in fondo appariva soltanto stonato; continuai a ridere di me e anche di lui mentre mi voltavo per proseguire con le mie cose, e me ne andavo chiudendo alle spalle la porticina in fondo alle scale, tanto la soddisfazione me l’ero già levata, e tornavo alle mie occupazioni senza neppure voltarmi di nuovo.
Bruno Magnolfi
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