Che importa queste giornate identiche, questa sensazione di ripetere
continuamente gli stessi gesti, continuare a dire le medesime parole:
saranno anni di scarto questi, preparatori a qualcosa che dovrà pur
manifestarsi prima o dopo, come un compendio ed insieme una rivalsa di
tutto ciò che è stato. Lei stava seduta sul suo autobus, lasciando
scorrere le fermate, con il suo carico di gente che saliva e che
scendeva, ogni volta quasi con sollievo, come se quelle soste, con il
loro progredire, l’implacabile susseguirsi, servissero soltanto ad
avvicinare il momento giusto, qualsiasi fosse, anche soltanto il suo
punto di arrivo.
Pensava adesso ad alcune persone che aveva visto nei pressi della
stazione ferroviaria, quando aveva transitato là davanti, gente senza
fissa dimora, che passava la notte in qualche angolo, a dormire sotto un
cartone o chissà come, ed adesso si ritrovava immersa in quell’aria
fredda e polverosa del mattino, a bere un semplice caffè di fronte ad
una fila di macchine automatiche, gustandosi persino il caldo del
bicchierino usa e getta tra le mani.
Sarebbe stato tutto da annullare, pensava; niente di questo sacrificio
aveva senso, se non quell’esperienza passeggera di cose brutte e tristi,
da non ripetere mai più, come se tutto nella vita dovesse essere da ora
in avanti soltanto un lento ma inesorabile miglioramento. E invece le
cose parevano in una condizione di perenne stallo, ed ogni sforzo non
portava mai niente di ciò che si era legittimamente potuto attendersi.
Infine era scesa dal mezzo pubblico, ed il silenzio ovattato della
strada poco transitata, senza quel rumore sferragliante che le aveva
riempito le orecchie fino adesso, le era parso la prova chiara del fatto
che la solitudine avesse ancora un proprio fascino, e che valesse la
pena andare avanti lungo le intenzioni in cui lei si era impegnata già
da molto tempo. Cosa importa non avere niente, pensava ancora. Vorrei
piangere ed urlare ad ogni attimo, è normale; prendermela con qualcuno
che neppure conosco, forse; e invece no: lascio scorrere le cose,
ammetto con leggerezza che poco per volta, senza neanche accorgersene,
tutto diventa un’abitudine, e che non può pesare nulla ciò che nessuno
riesce neppure a farci notare, come se tutto quello che siamo capaci
d’essere avesse comunque una spiegazione accettabile, e questo basti.
Un uomo sostava davanti al portone verde dove stavano, al terzo piano,
le sue due stanze dove lei abitava e che con grande sacrificio aveva in
affitto, come ad attendere proprio lei e nessun altro. L’aveva vista
avvicinarsi, si era mosso, lei però non lo conosceva; l’aveva notato
fare un gesto con la mano, come a rassicurarsi di avere ancora nella
tasca un documento che probabilmente doveva consegnarle, lo sfratto
dall’appartamento, pensava lei, o qualche altro guaio insorto
vigliaccamente alle sue spalle. Con questa impressione aveva già
rallentato l’andatura, aveva visto ancora l’uomo muoversi nervosamente,
ma senza più guardarla, e lei si era fermata come a cercare le chiavi
dentro la sua borsa, forse semplicemente per concedersi soltanto un po’
di tempo.
Le era venuto quasi da piangere, almeno per un attimo, senza ancora
sapere niente di ciò che l’attendeva, ma con coraggio aveva saputo
resistere all’angoscia che pareva prenderla in modo spietato e
inevitabile, e in uno spunto di orgoglio aveva soltanto dato un’occhiata
generale a tutto quel tratto di strada, come a cercare una via
d’uscita, qualsiasi fosse. Poi aveva voltato con decisione in una via lì
accanto, senza guardare niente in giro, allontanandosi con tutta la
fretta che in quel momento era stata capace di trovare nelle gambe,
cercando solo di pensare ad altro.
Bruno Magnolfi
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