Andrà a finire male per me, ne sono sicuro, avevo detto sperando che qualcuno mi ascoltasse, che ci fosse almeno uno pronto a recepire quelle parole, a interpretarle, a dirmi che non era affatto il caso di fare discorsi del genere, di abbattermi così, di immaginare tutta la realtà in maniera così negativa. Ma in effetti niente era accaduto. Così, quasi senza pensare, avevo percorso un tratto di viottolo lungo i binari del treno, tenendomi al margine, proprio dove corre la fine della massicciata. Avevo assaporato la polvere dei sassi, l’odore di ruggine, il senso di niente che c’era lì attorno; poi, in quell’ora serale, un treno mi era passato vicino, spostandomi leggermente con la sua massa d’aria.
Mi era piaciuto il rumore assordante del vento e dei meccanismi in azione, l’acciaio che rotolava veloce sopra altro acciaio, e mi ero immaginato il colpo fenomenale del ferro che ti strazia nel buio senza che nessuno si accorga di niente, come un niente, appunto, una piccola cosa che accade in un attimo nel mentre sacrifichi una parte di te, senza neppure renderti conto. Ho proseguito a camminare, con gli occhi puntati per terra ad evitare ogni inciampo, e altri treni sono transitati, ma ormai più distanti, come se l’impatto iniziale fosse ormai superato. Infine sono tornato indietro, disgustato di tutto, anche delle mie incapacità.
Mi sono sdraiato sul letto, da solo, nella mia stanza, nella morbida oscurità della finestra schermata dalle tende, e ho cercato di pensare. Quanto egoismo nei nostri modi di essere, anche nei miei, ho riflettuto. Ho provato il terrore che potesse suonarmi il telefono, ma non è accaduto. Avrei voluto allontanarmi da me, iniziare a pensare qualcosa indipendentemente dalla mia persona, da quello che sono, dalla mia vita, dai miei guai, ma tutto invariabilmente lì in quella stanza ripiombava sulle mie cose, su quelle piccole sciagurate faccende che pareva non volessero proprio filare per il verso giusto.
Ho cercato di immaginare un mondo dove ognuno si preoccupa maggiormente delle altre persone, ma mi sono reso conto in un attimo che nessuno mi ha mai abituato a fare così. Pensavo, e capivo che non c’era dentro di me la cultura appropriata ad affrontare le cose in maniera diversa, e quindi era ovvio che soffrissi per ogni piccolo smacco subito dalla mia persona. Mi sono concentrato, ed ho provato una voglia profonda di sincerità, non soltanto dagli altri, ma anche da me stesso. Sono tornato ad uscire, ho girato per strada, poi sono entrato dentro a un locale.
Mi sono messo al bancone ed ho offerto da bere ad un tizio che stava lì, apparentemente senza pensieri. Gli ho chiesto se aveva bisogno di parlare, o di qualche altra cosa, se potevo essergli utile, ma quello mi ha ringraziato della birra, se l’è scolata, poi si è alzato ed è andato via. Anch’io allora sono uscito, e mi sono guardato le mani, ho cercato qualcosa tra le case e le strade che mi circondavano, ma non ho trovato un bel niente che mi desse una spinta, che potesse mostrarsi capace di quello scambio di sincerità di cui sentivo forte bisogno. Ho continuato a girare, ho fermato qualche persona sul marciapiede, ho cercato di fare domande, di interessarmi di qualche problema diverso dai miei, ma tutti mi hanno indicato quell’unica strada che avevo di fronte. Così, velocemente, sono rientrato nella mia casa, mi sono sdraiato di nuovo sul letto, con i treni che avevano ripreso a fischiare forte nelle mie orecchie, ma ho cercato di farmi forza, di pensare che non avevo motivo per fare così; poi, lentamente, ho preso sonno.
Bruno Magnolfi
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