venerdì 2 settembre 2011

Distrattamente.



Non mi interessa, ero pronto a spiegare al citofono a quell’anonimo che aveva appena suonato il mio campanello di casa, un piccolo appartamento del terzo piano, immaginando qualcuno delle vendite porta a porta che ti infastidiscono per ore con un prodotto o un servizio di cui in genere già alla partenza si ritiene di poter fare a meno benissimo. Invece nessuno aveva parlato, silenzio, come se la mia laconica risposta fosse già stata inglobata all’interno di quel trillo elettrico.

Naturalmente pensai ad uno sbaglio o a qualche ragazzo in vena di scherzi, e tornai a sedermi sulla poltrona, riprendendo in mano il giornale e dimenticandomi subito di quella faccenda. Invece, dopo neppure dieci minuti, il campanello tornò a farsi sentire. Stavolta feci scattare il meccanismo di apertura del portone e mi affacciai sulle scale, per rendermi conto di persona chi potesse essere a infastidirmi così.

Una donna saliva lentamente le scale, senza minimamente sollevare lo sguardo per farsi vedere, così io, con pazienza, lasciai che completasse tutte le rampe, fino a quando, tenendo leggermente sollevata la lunga sottana con una mano, lei giunse a due gradini dal mio pianerottolo, si soffermò, poi mi raggiunse allungando la mano come a volersi presentare, ma restando in silenzio. Buongiorno, dissi io, senza riuscire assolutamente a capire quale potesse essere il motivo che aveva fatto arrivare fino da me quella persona. Posso entrare?, disse lei già infilandosi nel portoncino, così io non riposi neppure, e mi limitai soltanto a seguirla, improvvisamente preoccupato di qualcosa che neanche io al momento avrei saputo spiegare.

Sono Rosanna, disse lei una volta giunta nel corridoio e voltatasi verso di me; eravamo bambini insieme, tanti anni fa, ti ricordi? Io non ricordavo assolutamente un bel niente di quanto andava dicendo quella signora per me sconosciuta, anche se forse potevamo veramente esserci frequentati da piccoli, e comunque annuivo lasciando che continuasse a parlare, anche soltanto per capire quale fosse il motivo finale di quella sua visita. Ho bisogno di te, diceva lei, devo riuscire a farti ricordare qualcosa di quel periodo, qualcosa che per me è estremamente importante.

Naturalmente la invitai a sedersi, a parlare con calma di quelle faccende di cui mi pareva all’improvviso di rammentare qualcosa, la strada dove abitavamo, qualche nome a cui aveva accennato, ma quella donna continuava a guardarmi come se non avesse alcuna voglia di parlarmi a lungo di quel periodo, e le fosse sufficiente così, come se le bastasse starsene lì con gli occhi sulla mia faccia, mantenendo un’espressione tra il sorridente e il commosso, e non avesse bisogno di altro. Infine chiese semplicemente di scusarla, per lei quell’infanzia era stato il periodo più bello della sua vita, e sapere che c’era qualcuno che aveva vissuto la sua stessa esperienza le faceva un enorme piacere.

Si alzò, all’improvviso, senza neppure accettare il caffè che le avevo proposto, disse che era meglio se andava, che forse non avrebbe neppure dovuto venire, poi, ormai sulla porta, si volse verso di me, mi guardò ancora una volta come soltanto una donna innamorata può fare; guardò i miei capelli, i miei occhi, come a scolpire nella memoria quei tratti, e infine riprese le scale, senza aggiungere altro. Per tutta la sera pensai a lei, al nostro esser stati bambini, senza che a me fosse rimasta di quel periodo la stessa traccia importante che lei aveva conservato per così tanto tempo. Più tardi, sul pavimento, trovai un piccolo foglio piegato, lasciato casualmente in un angolo: ti ho amato, diceva; nient’altro.

Bruno Magnolfi


Nessun commento:

Posta un commento