C’eravamo velocemente rifugiati, insieme ad una ragazzona di nome Anna conosciuta soltanto pochi minuti prima, in una specie di rimessa abbandonata, con la porta completamente divelta, che rimaneva lungo la strada principale, e ci eravamo accucciati in un angolo all’interno cercando di riordinare tutte le nostre idee. Gli spari provenienti dalla vicina collina sembravano diretti soltanto verso il piccolo paese che ci eravamo lasciati alle spalle, io e Ettore, e la soluzione migliore, almeno per il momento, pareva proprio quella di rimanersene lì, nella semioscurità, ad attendere che l’attacco cessasse.
A sera non avvertivamo più alcuno sparo, e ci sentivamo ormai pronti ad abbandonare quel rifugio. Anna ci aveva raccontato di essere scappata dalla parte sbagliata quando era iniziato tutto, ed adesso avrebbe voluto tornare verso casa, nel paese, per rendersi conto che cosa fosse successo ai suoi genitori e alla sua famiglia. Le altre volte, diceva, eravamo sempre andati tutti insieme nel bosco poco lontano, dove c’è un grande capanno nascosto tra la vegetazione, e si può stare anche più giorni. Probabilmente sono tutti lì. L’accompagnammo, con circospezione, dopo che il sole era tramontato, ed effettivamente trovammo tutti ormai in casa e in buona salute.
Ci ringraziarono per Anna, ci dettero da mangiare qualche cosa, poi insistettero per farci passare la notte da loro, sistemati alla meglio in una stanza vuota. Dalla finestra la luna rischiarava la strada, così decidemmo una sorveglianza a turno, per evitare di lasciarci sorprendere nel sonno. Tutto pareva filare liscio, ma ad un tratto Anna bussò alla porta lievemente. Disse che voleva venire insieme a noi il giorno seguente, dovunque andassimo, non voglio più stare qui senza far niente, disse: mi piacerebbe raggiungere gli altri, dare una mano, sentirmi utile. Ettore le spiegò che avevamo bisogno del consenso di suo padre, non poteva fuggirsene così, senza alcuna spiegazione, ma lei sostenne che ne aveva già parlato con i suoi, era maggiorenne, e su quel punto loro lasciavano a lei ogni decisione.
Partimmo presto, all’alba, costeggiando tra gli alberi la strada principale, Anna era silenziosa, camminava dietro di noi e spesso si voltava, a guardarci le spalle e forse a dare un’ultima occhiata al suo paese. Si fece una sosta in un fienile abbandonato, dividendoci un pezzo di pane e del formaggio che avevamo. Ettore chiese qualcosa alla ragazza, giusto per parlare, ma lei non disse niente, pareva adesso molto più forte e decisa in ciò che stava facendo, pareva convinta non ci fosse alcun bisogno di spiegare niente.
Al pomeriggio arrivammo in un paese abbastanza grande, la gente girava per strada anche se con circospezione, e noi entrammo in una bettola per avere notizie e per bere qualcosa. Fu lì che ci arrestarono, senza sparare neanche un colpo, uscendo da dietro come fulmini. Vedevamo Anna che si dimenava, urlava che non c’entrava niente con noi, era soltanto lì per caso, ma a niente valsero i suoi sforzi. La portarono via, caricandola su un’auto in malo modo senza darle alcuna possibilità, e soltanto dopo, sempre con maniere violente, chiesero a me e a Ettore come l’avevamo conosciuta. Dicemmo la verità, e poco dopo ci lasciarono liberi. Si seppe in seguito che lei era stata da bambina la compagna di giochi di un sanguinario pezzo grosso del regime, la sua condanna era nell’aria, anche se Anna probabilmente non aveva alcuna colpa. Tornammo indietro per dare una spiegazione alla famiglia, ma non trovammo più nessuno, come se quelle case dove avevamo trascorso la notte precedente, non fossero mai state abitate. Ripartimmo frastornati, niente sembrava fare più paura di quell’incomprensibile realtà.
Bruno Magnolfi
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