lunedì 7 marzo 2011
L'urlo dei pensieri.
L'urlo dei pensieri.
I ragazzi si erano stufati in fretta di giocare al pallone, così si erano seduti sopra al bordo di un marciapiede poco lontano, tenendosi le ginocchia con le braccia e parlando sottovoce delle loro cose. Il babbo di uno di loro era passato poco dopo con la sua auto scarburata, aveva abbassato il finestrino e lo aveva chiamato. Lui era corso via e nel giro di mezz’ora anche il resto del gruppo si era sciolto, andandosene ognuno verso la sua casa, mentre le ultime ombre del giorno si allungavano tra i sassi e la terra di quel quartiere periferico.
Andrea era rimasto in silenzio ad ascoltare gli altri, poi, quando se n’erano andati, aveva salutato tutti con un ciao imbronciato e si era allontanato da solo, perché era l’unico che abitava in un appartamento delle case minime, un gruppo di abitazioni di legno messe su in fretta dopo il terremoto in una zona fuori mano, e poi rimaste lì, a degradarsi poco per volta in quei dieci anni, giorno dopo giorno. Non gli piaceva tornarsene dai suoi, preferiva tirare tardi insieme a qualcuno dei ragazzi, quando era possibile: c’era in casa quel clima perennemente teso, una guerra continua anche soltanto per delle stupidaggini, e lui, nonostante il suo silenzio e gli occhi bassi, a volte comunque riusciva a fare le spese di qualcosa di cui non aveva minimamente colpa.
La strada polverosa girava attorno ad un gruppo di orti di fortuna, recintati alla meglio, e qualche povero cane, rinchiuso nelle cucce di lamiera, abbaiava e guaiva al minimo sentore di qualcuno nelle vicinanze. Andrea si era fermato, si era guardato attorno, infine senza far rumore era andato a sedersi su una grossa pietra lì vicino: non aveva voglia di tornare a casa, continuava a ripeterselo continuamente, avrebbe fatto di tutto pur di non sentire i soliti urli e assistere alle medesime scenate di ogni giorno. I cani in poco tempo si erano acquietati, e lui, nella sua equilibrata solitudine, aveva respirato l’aria fresca della sera, quel silenzio meraviglioso, quella pacatezza che regnava accanto agli orti ormai deserti a quell’ora.
Sarebbe diventato grande tra qualche anno, pensava, le cose sarebbero state facili e naturali per lui, così come lo erano state per suo fratello e per tutti gli altri ormai adulti, e avrebbe anche lui potuto dire in faccia a chiunque le sue idee e le sue opinioni, facendosi ascoltare, e si sarebbe fatto in fretta una reputazione, la calma sarebbe regnata in casa sua, ognuno avrebbe potuto esprimere in piena libertà ogni proprio singolo pensiero. Era solo questione di tempo, tutte le cose si sarebbero aggiustate, ma non poteva lui pretendere adesso una qualche scorciatoia, era evidente, e se non sopportava il continuo litigare dei suoi genitori, doveva solo convincersi che tutto questo non sarebbe continuato così per molto tempo.
Nessuno gli chiedeva mai la sua opinione, ma era solo perché lui preferiva starsene perennemente in silenzio, e tutti in genere lo lasciavano in disparte di ogni cosa, come se Andrea non avesse un suo parere. Ma sarebbero cambiate le cose, lo sentiva, era sufficiente far passare un po’ di tempo, e lui avrebbe spiegato a tutti cosa pensava veramente, quali erano le idee che gli passavano continuamente nella testa e qualche volta parevano quasi urlare dentro di sé. Ormai era buio, non c’era altro da fare, adesso doveva proprio rientrare a casa sua, così si alzò da quella pietra incamminandosi verso quel buffo gruppo di alloggi di legno poco lontano, e nello stesso attimo un cane uggiolò, riportandolo all’improvviso alla realtà: volse la testa come per cercarlo tra quegli orti, anche se era tutto scuro, e d’un tratto seppe di volergli bene, anche se non sapeva di preciso neppure dove fosse.
Bruno Magnolfi
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