lunedì 7 marzo 2011

Scena n. 17. Il pubblico.



Le persone in platea restano sedute in silenzio, guardano tutte nella stessa direzione, nessuna di loro volge lo sguardo dietro di sé, al massimo qualcuna osserva, ma solo per brevi istanti, la zona a fianco dove siede il proprio vicino. Gli uomini tengono un atteggiamento fermo, determinato, le donne al contrario mostrano una dolcezza di espressione tale da giustificare un atteggiamento benevolo nei confronti di ciò a cui stanno assistendo. L’impresario osserva tutto da una vetrata che domina la sala, se ne intende di persone, sa perfettamente cosa significa quell’atteggiamento quasi passivo, e si ritiene piuttosto soddisfatto delle rappresentazioni messe in cartellone per la stagione in corso.

La scenografia appare essenziale, due operai nel pomeriggio sono riusciti a mettere in piedi tutto quanto senza indugi, e le luci basse sulla scena adesso producono una certa profondità di campo nella semioscurità che si forma sul fondale dietro al palcoscenico. Il teatro è quasi pieno, la pubblicità a tappeto, su carta neppure patinata, ha dato i suoi frutti, e anche il titolo ambiguo della rappresentazione è riuscito a creare una certa aspettativa tra la gente. Se le cose funzionano, saremo riusciti a creare un importante precedente per tutto ciò che seguirà da ora in avanti, pensa l’impresario.

Una persona poi si alza, dice qualcosa a voce alta, un giudizio pesante sulla serata che si sta svolgendo, l’attore incerto tentenna e poi si ferma, osserva qualcosa per un attimo nel buio della sala, quindi prosegue riuscendo a non perdere il filo della sua recitazione. Tutto è peggiorato, pensano in parecchi, forse è l’inevitabilità dei tempi che porta questi doni, immaginano alcuni; altri agitandosi sopra le poltroncine sembrano arrabbiati contro chi ha osato interrompere la rappresentazione, e con i loro modi, senza rendersene conto, riescono a complicare le cose in misura quasi maggiore di ciò che fino allora è realmente accaduto. Un brusio si avverte dappertutto, alcuni dicono a voce bassa che chi ha parlato prima indubbiamente ha un briciolo di ragione: lo spettacolo si vede che è tirato via, le cose scorrono ma solo per l’indulgenza manifestata dal pubblico, che in qualche modo gioca un proprio ruolo. Poi, lo stesso tizio che ha parlato inizialmente usando in realtà parole poco chiare ma lasciandosi ugualmente comprendere benissimo, adesso si alza, e con lentezza esce dalla sala: qualcuno pacatamente applaude, altri sembrano sul punto di seguirlo.

Gli attori vanno avanti, sembrano consci della situazione che si è creata, il loro imperterrito proseguire nella recitazione pare la giustificazione al loro mestiere, alla necessità di tutti di portare a compimento in un modo o nell’altro il proprio lavoro. In effetti non si sa neppure con chi prendersela, i tempi sono questi, sembra la spiegazione più evidente delle cose, chi non ci sta cerchi pure di cambiarli, se riesce. Si leva un applauso quando un attore, conscio di tutta la tensione, si rivolge al pubblico allargando le braccia quasi in segno di resa, ma come se contemporaneamente non avesse la voglia di fare lui ulteriori spese della situazione, mostrando così che non è proprio colpa sua se le cose stanno in quella maniera.

Lo spettacolo riprende, forse c’è uno spiraglio di indulgenza, ma la situazione ormai non è più la stessa dell’inizio: si è rotto l’incantesimo, gli uomini si sbracano sopra alle poltrone, le donne hanno risolini ironici, gli attori continuano, ma solo per contratto, non c’è più interesse nel mandare avanti al meglio la rappresentazione. Quando finalmente lo spettacolo finisce, tutti escono, in pochi hanno voglia di parlare, ma qualcuno riesce a trovare addirittura interessante la serata, e alla maggior parte di loro lo spettacolo sembra proprio sia piaciuto, nonostante tutto.

Bruno Magnolfi

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