martedì 26 giugno 2012

Montagne sepolte.




Vi ero giunto con il treno, in quel posto di vacanza indicatomi da un caro amico che ne aveva tessuto le lodi, sottolineando la straordinaria tranquillità di quel luogo, ed io avevo preso albergo in una vecchia pensione sul lago, con conduzione familiare, un bell’edificio con la facciata di pietra e le camere spaziose, anche se senza pretese. Avevo passeggiato a lungo in quei primi giorni, percorrendo la strada sul lungolago e fermandomi a leggere qualche pagina dei miei libri su una delle tante panchine di cui erano disseminati i giardini lungo la riva. Infine avevo conosciuto una donna, per caso, solitaria e meditativa proprio come me, e dopo le presentazioni di rito avevo parlato con lei di alcuni libri e di altri argomenti perlopiù senza importanza, dandole infine appuntamento per il giorno seguente in quel medesimo luogo.

All’incontro ero arrivato per primo, e avevo evitato perfino di sedermi, preferendo attendere l’arrivo di quella donna restando appoggiato con noncuranza al tronco di un albero di quell’area verde, lo sguardo perso sull’acqua calma del lago, la voglia indiscussa, anche se non evidente, di stare con lei, di farla salire su una barca a noleggio, magari, e di portarla con me alla ricerca della nostra reciproca conoscenza. Ma lei invece era arrivata in ritardo, quasi trafelata, le maniere di chi è fortemente preoccupato di qualcosa di cui, chissà per quale motivo, non intende neppure parlare, e con questi presupposti mi aveva detto velocemente di essere dispiaciuta oltremodo, ma non le era proprio possibile restare in mia compagnia per quel pomeriggio, e che forse era bene non cercare di rivedersi neppure in altre o diverse occasioni.

Cercai di capire di più, dissi: non c’è niente di male in tutto questo, secondo me; ma la donna, interrompendomi, liquidò tutto quanto con poche parole agitate che non indicavano niente, se non la sua semplice volontà di fuggirsene via. Chiesi una spiegazione ulteriore, insistetti, ma lei, senza neppure tornare a guardarmi, disse che al momento era impossibile, non avrei mai potuto comprendere la natura di tutti i suoi affanni. Le ricordai solamente, al momento di salutarla, la pensione dove abitavo, e lei assicurò che mi avrebbe senz’altro cercato all’albergo, o inviato a quell’indirizzo un messaggio, o una lettera, probabilmente già il giorno seguente, quando le cose con facilità sarebbero state più chiare, e per lei più serene. La lasciai accontentandomi di un saluto dedicatomi in fretta, privo di maschere false; ma proprio al momento di andarsene, quella donna si sentì forse in dovere di spingersi soltanto per un attimo verso di me, abbracciandomi con grande trasporto e premendo forte il viso sul mio, quasi in un pegno, subito prima di fuggirsene via, senza neppure voltarsi, lasciando dietro di sé quasi un alone sfumato di quel comportamento inspiegabile.

Nei giorni seguenti, alla mia residenza, non giunse alcun tipo di messaggio, né tantomeno la donna si fece vedere alla pensione o nelle sue circostanze, e a me parve quasi di averla forse soltanto sognata, pur continuando a cercarla per le strade del piccolo paese e sopra la faccia di ogni persona che riuscivo a incontrare. Infine, dopo tre settimane, mi decisi a partire, niente mi tratteneva più in quei paraggi, e fu allora che tornai a rincontrarla, ma da lontano, mentre appariva in compagnia di diverse altre persone: mi aveva visto, mi guardava, ma come si guarda qualcuno che fa parte di te, dei tuoi stessi pensieri, senza cambiare espressione, in quella maniera profonda che si mostra dirigendo gli occhi con intenzione, pur continuando semplicemente a guardarmi e nient’altro, senza accennare neppure a un saluto, ad un qualsiasi seguito, o a un semplice accenno, però come se dentro al suo sguardo già persistesse, inspiegato, tutto ciò che eventualmente ci sarebbe stato da dire.

Bruno Magnolfi

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