Mi avevano sistemato in un letto della corsia, nel reparto di medicina
generale; gli infermieri erano stati bravi e veloci, anche se si erano
subito dileguati. Gli altri cinque ammalati della mia camera pareva
fossero là dentro da sempre: mi avevano osservato in silenzio, io ero
rimasto immobile nella stessa posizione in cui ero stato messo,
voltando soltanto lo sguardo, per qualche momento, verso l’unica grande
finestra che c’era, per osservare quel piccolo pezzo di cielo che
restava inquadrato in fondo alla stanza, oltre la parete slavata. Dopo
un po’ era sopraggiunta la dottoressa con un infermiere, mi avevano
fatto qualche domanda, mi avevano anche toccato e rigirato su tutti i
lati.
Ero caduto a terra svenuto, così, all’improvviso, mentre ero in giro
quasi senza far niente, con le mani dentro le tasche, a spasso lungo le
strade del mio quartiere, e ciò era segno evidente, secondo loro, che
qualcosa si stava compromettendo dentro al mio organismo. Adesso
però, passato lo spavento osservato a specchio negli occhi della
gente, tra i barellieri dell’autoambulanza, mi sentivo bene, o meglio
non provavo alcun dolore, ma la paura che la mia vita cambiasse, da
quel momento in avanti, era forte, intensa, superiore ad ogni altro
pensiero. Dovevano farmi una serie di analisi, aveva detto la
dottoressa, sondare a fondo le risposte del mio sistema vitale, capire
cosa nascondesse quell’apparenza neutrale, quasi indifferente nello
svolgere funzioni oppure no.
Poi se n’erano andati, lasciandomi da solo come a galleggiare, insieme
al mio letto bianco, su un mare oscuro e sconosciuto che tendeva a
infiltrarsi dentro di me e tra le coperte in cui ero avvolto. Non ero
mai stato dentro quell’ospedale, ma se non mi sembrava all’apparenza
del tutto ostile, in ogni caso non faceva nascere, nella mia mente,
alcuna curiosità. Di fronte a me, due ammalati, avevano parlato
sottovoce tra loro, poi era ritornato il silenzio. Si avvertiva
soltanto un ronzio persistente, un rumore che sembrava provenire dai
muri stessi, come se un grosso motore elettrico, nascosto da qualche
parte, desse l’energia sufficiente a tenere in vita quell’edificio,
forse anche i degenti, forse ogni più piccolo elemento di cui era
composta tutta quanta quella struttura.
Fuori dalla finestra era passata lentamente una nuvola, io avevo
pensato alla mia casa, ai miei passatempi, alle mie giornate, pur
vuote, eppure estremamente preziose. Mi ero rannicchiato sotto alle
coperte, quasi per ritrovare una dimensione più intima, mi ero
addirittura coperto la testa. Erano trascorsi ancora abbondanti e
lunghi minuti senza che niente accadesse, avevo anche riflettuto se
fosse il caso di addormentarmi, oppure semplicemente restarmene lì in
quel modo inerte.
Infine, di colpo, mi ero scoperto, avevo messo i piedi fuori dal
letto, inforcate un paio di pantofole, e in un attimo ero già nel
corridoio. Gli altri mi avevano osservato, senza dire nessuna parola.
Io avevo scorso tutte le camere a destra e a sinistra, e un’infermiera
mi aveva notato, ma non si era interessata di me, ed io avevo
raggiunto velocemente uno degli ascensori. In un attimo, con il
pigiama a righe di qualche taglia superiore alla mia, ero arrivato
fino all’ingresso principale. Forse potevo andarmene, avevo pensato;
forse potevo dare ancora un’occhiata al cielo pieno di nuvole. Ma la
mia testa era confusa, all’improvviso una paura profonda e sconosciuta
mi aveva colto, mentre ero già davanti alla grande porta vetrata che
immetteva all’esterno.
Era troppo presto, non mi era stato possibile ancora farmi un’idea di
tutto quanto; avevo bisogno di rendermi conto, di capire un po’ meglio
cosa stesse accadendo. Osservavo le persone che entravano e uscivano
continuamente, come se tutto fosse normale, poi avevo orientato il mio
sguardo sul cielo: la porzione di nuvole che si intravedeva fuori
dalle vetrate era grande, qualcuna tendeva a raddensarsi nel vento,
altre si sfilacciavano come allungandosi. Decisi che non c’era altro
da fare: dovevo tornare di sopra, attendere i risultati di tutte le
analisi, fidarmi delle persone che lavoravano per la salute di tutti:
poi, non ricordo più niente, caddi a terra di nuovo, nient’altro.
Bruno Magnolfi
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