martedì 25 marzo 2014

Identica voragine.

È proprio nell’attimo stesso in cui rientra a casa, quando chiude la porta alle sue spalle, che Lucia si sente profondamente sola, pur avendo magari passeggiato fino ad allora in compagnia soltanto dei suoi pensieri. Sua mamma è lì, come sempre, davanti alla televisione, e la saluta nel solito modo; poi come fa spesso le chiede subito qualcosa, e lei inizia a risponderle male, sbuffando e quasi per automatismi, usando le solite frasi di sempre, i medesimi argomenti. Non ha niente contro di lei, anzi, a giudizio di tutti in fondo è l’unica compagnia della sua vita, ma è sufficiente però la sua presenza per farla sentire molte volte quasi disperata.
Lucia ha un piccolo lavoro che svolge al mattino nel quartiere, e forse è questa la parte del giorno che le piace di più. Vuole bene alla sua mamma, è indiscutibile, ma quando la ritrova sempre identica nei modi e in tutto il resto, vorrebbe quasi strangolarla. Per questo esce spesso anche nel pomeriggio, arrivando certe volte fino ad un circolino dove giocano a tombola. Oppure va al centro commerciale senza però avere nulla da acquistare; o magari se ne sta in giro per strada, senza neanche una meta. Lucia non la guarda neppue quando le chiede cosa le possa andare per cena, o quando la aiuta a stendere le gambe sopra al cuscino, o ad alzarsi dalla poltrona dove passa gran parte della giornata. Succederà qualcosa di brutto, pensa molto spesso, quasi ad esorcizzare tutto ciò che senza neppure volerlo le passa in automatico dentro la testa.
Poi certe volte entra in bagno, si guarda dentro lo specchio e le viene subito da piangere. Forse vorrebbe essere più cortese con la sua mamma, magari anche premurosa, e qualche volta sforzandosi ci ha persino provato; ma non le riesce, questo è il punto, e se ci pensa le balla una palpebra, e sente montarle il nervoso ogni volta che si trova nella stessa stanza con lei, senza che possa far niente.
Quello che soprattutto non riesce a sopportare, ma che avverte profondamente, e le basta soltanto vederla, ritrovarla lì, nella stessa posizione di sempre, è questa necessità della sua mamma di riuscire a far pena, di dimostrare ad ogni istante che ha bisogno di lei, che è nelle sue mani, che non potrebbe in alcun modo vivere senza Lucia. E Lucia proprio per questo la sente distante, diversa, lontanissima, quasi che in casa di loro due fosse ormai rimasta soltanto una fotografia sfocata e sbiadita di ciò che potrebbe essere stata la mamma che lei avrebbe voluto.
Devo uscire, le dice già con il cappotto addosso e le chiavi dentro la mano. Non mi dici dove vai? fa la sua mamma. Torno presto, si limita a rispondere Lucia, quasi avesse chissà quali impegni segreti. Poi si ritrova per strada, gira a caso, cerca uno scopo nelle vetrine dei negozi che vede. Si perde tra i pensieri che le vengono e la realtà che vede o che immagina. Infine rientra, almeno subito prima che la sua mamma inizi a provare il più piccolo barlume di preoccupazione; e quando apre la porta sa già che farà gli stessi gesti di sempre, pronunzierà le identiche parole di ogni volta, si muoverà nel piccolo appartamento così come sa che sua mamma si aspetta da lei; anche se è totalmente cosciente che è come se sprofondasse ogni volta nella medesima voragine.
Bruno Magnolfi

martedì 18 marzo 2014

Aria fresca su Fiesole.


Tutto questo tempo è trascorso così in fretta che non avrei mai immaginato di ritrovarmi già a doverne tirare le somme, dice lei con voce bassa, come parlasse tra sé. Lui la guarda per un attimo, senza pronunciare alcuna parola; forse vorrebbe sorridere per la frase che ha ascoltato, mostrando in qualche modo superiorità rispetto a quella che reputa una sciocca ed ordinaria debolezza, ma non fa niente; si limita a pensare qualcosa di vago, provando solo un leggero senso di fastidio, e così prende un altro sorso di caffè, lentamente, lasciando che quel piccolo gusto aromatico sul suo palato sia sufficiente.
Lei senza guardarlo resta poi in silenzio, non le piace sentirsi scoraggiata nelle sue riflessioni, perciò, dopo quella pausa forse un po’ pesante, dice semplicemente che in fondo non si sente ancora vecchia, e che tutte le cose che vede rimangono comunque nella sua mente in continua trasformazione, almeno secondo il suo modesto parere, e che si tratta soltanto di averne coscienza, almeno di una buona parte. Lui adesso annuisce, ancora non sa intervenire su quelle parole che in fondo non indicano niente; guarda qualcosa fuori dalla saletta del bar dove loro due si sono rifugiati, poi pensa a cosa potrà fare più tardi, e nient’altro.
Il cameriere arrivato in quel momento nel locale a dare rinforzo per i tè e gli aperitivi della sera, con perfetta cortesia saluta i due che conosce da tempo, lasciando loro soltanto un sorriso professionale. Lei vorrebbe parlare di qualcosa di leggero adesso, ma avverte come se il pomeriggio tra loro due ormai si fosse incupito: potremmo fare due passi, dice allora tanto per cambiare argomento. Lui raccoglie la frase proponendo alternativamente una passeggiata con la sua macchina. Va bene, dice lei, ma allora arriviamo almeno fino a Fiesole, tanto per vedere il tramonto sulla città. Lui fa cenno di si, si alza, paga velocemente le consumazioni, apre la porta e fa uscire la sua compagna.
L’aria è ancora fresca, si potrebbe dire, ma pur pensandolo nessuno dei due si azzarda a dirlo. Salgono in auto e si avviano lungo i viali ingombri del solito traffico. Lui spiega che a quell’ora la luce del giorno è fantastica, lei annuisce, poi dice: non riesco ad avere una voglia precisa; anche se penso intensamente a qualcosa che potrei fare, subito dopo sento che me ne manca l’entusiasmo, così finisce che mi affido alle solite attività di sempre, che non impegnano la mia capacità decisionale, anche se in seguito, lo so da subito, finisce che mi sento soltanto delusa.
Lo capisco, fa lui; occorre sempre più spesso un motivo forte per spingerti a fare qualcosa di nuovo, è come se le abitudini ti imbrigliassero sempre di più, fino a lasciarti preda soltanto delle solite cose. Forse anche noi due siamo soltanto un’abitudine. Può darsi, fa lei, però spesso trovo qualcosa di nuovo in ciò che riusciamo a scambiarci, come se il nostro impegno non volesse diminuire con facilità, anche se mi rendo conto di quanto sia molto più semplice ripiegare su qualche vecchio comportamento. Dobbiamo sforzarci, dice lui; spingerci a vicenda, forse stimolarci.
Lo so, fa lei sorridendo, però guarda questo tramonto, osserva il profilo di questa città ai nostri piedi: lo avremo visto migliaia di volte, però ci regala comunque un’emozione nuova ogni volta. E’ vero, dice lui; nonostante quest’aria sia ancora fresca.
Bruno Magnolfi

giovedì 13 marzo 2014

Bisogno di vento.


Il vento muove gli alberi, Piero resta seduto su una vecchia panchina di legno, nel sole pomeridiano. Se n’è andato da casa, ha detto semplicemente alla sua compagna che sente il bisogno di un periodo di riflessione, e così ha lasciato per qualche giorno la sua famiglia con il bambino ancora piccolo, che non può comprendere minimamente la sua assenza, e si è rifugiato lì, senza neppure sapere adesso cosa sia meglio fare. Quella casa di campagna che gli ha prestato un amico è bella però poco confortevole, ma questo fatto forse adesso non ha alcuna importanza, Piero non sente alcuna voglia di tirare avanti come ha fatto fino ad oggi: non riesce a vedere il domani, non riesce a comprendere neppure cosa dovrebbe fare, quali scelte introdurre nelle sue giornate.
Si guarda attorno, Piero, cerca ispirazione nella natura verde dell’erba, dei cespugli, dei fiori spontanei; ha già passeggiato a lungo per i viottoli, costeggiando i fossati che delimitano qualche campo coltivato, ed ha incontrato qualcuno che naturalmente non conosceva, salutandolo da lontano, come pensa si faccia in luoghi come questi. Si sente fuori posto, questo è sicuro, però ammira tutto ciò che fa parte di località come queste. La sua intenzione è quella di perdersi completamente nell’entusiasmo che gli genera la campagna, ma anche nel prendersi cura di sé, nell’accarezzare qualsiasi pensiero gli passi dentro la mente, e dedicarsi alle piccole attività quotidiane che qui, più che in qualsiasi altro luogo, si mostrano del tutto necessarie.
Rientra dentro l’abitazione, Piero, assapora il fresco dei muri di pietra, si versa un bicchiere d’acqua dalla caraffa, infine si siede presso il grande tavolo della cucina. Ha il telefono portatile con sé, in qualsiasi momento potrebbe interrompere quella sospensione che sta vivendo. Poi si alza, gli è venuta voglia di farsi del tè, ne trova nella dispensa, mette l’acqua nel bollitore, accende il fuoco, prepara la tazza, il filtro, tutto quanto gli serve. Torna a sedersi, ma si sente nervoso, è come se avesse bisogno di decidere qualcosa urgentemente, senza mettere altro tempo di mezzo. Guarda fuori dalla finestra i pochi alberi attorno alla casa, gli sembrano soli nel vento, privi di qualsiasi possibilità per sentirsi in altra maniera.
Torna a sedersi, Piero, prende una matita, um foglio di carta: il pensiero di suo figlio che probabilmente si chiede dove lui sia, lo prende quasi come dentro una morsa. Scrive qualcosa che vorrà leggere in seguito a lui e alla sua compagna, qualche parola che indichi la sua sofferenza, il suo stato di incertezza completa, ma tira più di una volta una riga sulle parole che scrive, e infine accartoccia tutto quanto, gettando via ogni pensiero.
Infine si alza, Piero, il sibilo del bollitore lo chiama, va verso il fornello, toglie l’acqua dal fuoco, ma prima di spengere la fiamma la sciarpa che ancora tiene al collo si incendia in un attimo. È solo un momento, lui schizza verso l’acquaio, si getta addosso la caraffa d’acqua lì accanto,  si strappa i vestiti di dosso, corre ad aprire la finestra, che il vento porti via in fretta l’odore acre di stoffa bruciata. Respira, Piero, a pieni polmoni, poi compone il numero di telefono: aiuto, dice affannoso alla sua compagna; ho bisogno di voi.
Bruno Magnolfi

martedì 4 marzo 2014

Oltre se stessi.

In certi giorni esco di casa, costeggio il marciapiede a fianco della mia strada, e proseguo oltre un anonimo muro di mattoni accanto ad un giardinetto che si allarga subìto dopo. Attraverso il viale in prossimità del semaforo, poi vado ancora avanti, lungo alcune costruzioni anonime, fino ad arrivare davanti ad una vecchia casa ormai disabitata, dai muri tutti ingialliti e dall’intonaco cadente. Nel giardino là attorno staziona quasi sempre una colonia di gatti randagi che sembrano perennemente in attesa solo di qualcuno che proprio come me, quasi ogni giorno, si infili tra quei cespugli polverosi prendendosi cura di loro: porto là qualche scatoletta di roba da mangiare, pulisco i rimasugli di roba rimasti dalla volta precedente, osservo se per caso siano nati dei nuovi micini, ed in genere faccio qualche coccola a quelli che si lasciano avvicinare più volentieri.
Però rifletto ogni volta e sempre più spesso se sia il caso di continuare a fare cose del genere: mi sento insulsa certe volte, preoccupata di niente, alla ricerca soltanto di qualcosa che mi impegni, e di nient’altro. La mia solitudine forse è diventata più preoccupante di quanto doveva essere, penso; dovrei cercare attorno a me qualche novità, idee differenti, elementi che valgano davvero la pena di un vero impegno. Così qualche sera arrivo in prossimità della casa dei gatti e invece di fermarmi vado oltre, senza neppure sapere bene in cerca di cosa, ma con le mani perennemente ingombre di elementi che dimostrino in qualche modo un mio compito preciso, perché di questo ho bisogno.
A volte penso che oltre quel pezzo di strada che continuo così spesso a praticare, ci possa essere forse qualcosa che abbia per me un senso più importante del resto, anche di questi gatti egoisti, però credo sia difficile trovare davvero l’elemento giusto che mi trascini in una zona diversa, verso altre strade, in luoghi che non so neppure io immaginarmi, perché è come se la mia personalità riuscisse a muoversi solamente all’interno di ciò che conosco, di ciò che ho sempre praticato. Vado avanti con le scatolette e le mie buste piene di roba, sento i gattini che miagolano nel buio, forse perché mi riconoscono, forse solo perché hanno fame, sanno che qualcuno si occupa di loro.
Oggi però arrivo velocemente alla fine di questa strada, mi fermo ad un angolo, osservo da ogni parte pensando verso dove possa dirigermi pur di scappare da lì, ma non è facile, senza lo scopo dei gatti tutto pare improvvisamente insignificante, senza un fine preciso. Un uomo sul marciapiede di fronte mi osserva, forse comprende il mio contrasto interiore. Mani in tasca, con tutta la lentezza possibile però si avvicina, mi guarda, vede che ormai sto quasi piangendo, la mia emotività ha uno sbocco che non riesco del tutto a controllare. Cosa succede, mi chiede; io lo guardo, non saprei neppure come spiegare quel mio disagio, così non dico niente, lascio vedere che tutto il mio impegno per gli altri è ridotto ad un niente nelle mie mani, che forse ho perduto la strada, la voglia, il filone a cui avevo dedicato fino adesso tutto il mio tempo.
Lui mi viene vicino in silenzio, prende le buste che ho ancora nelle mani e va al posto mio a sistemare a terra le cose che ho portato da casa, poi torna indietro, non dice niente, mi prende a braccetto e mi spinge più avanti, fino ad arrivare davanti ad un caffè dove andiamo a sederci, e a farci servire qualcosa di caldo.
Sono oltre, penso guardandolo ma ancora senza parlare, ho già superato l’ostacolo che avevo di fronte: ho di nuovo voglia di piangere, perché in fondo era facile riuscire in questa stupida impresa, poi penso a quei poveri gatti che forse non avranno più me nei prossimi giorni a prendersi cura di loro; ma non ha alcuna importanza, rifletto: i gatti randagi sanno benissimo come riuscire a campare, siamo solo noi che vogliamo vederli indifesi, ma per un limite nostro, per il nostro bisogno di essere caritatevoli, spesso sbagliando indirizzo. Sorseggio il caffè, guardo ancora la persona che mi trovo di fronte: è proprio di quello di cui avevo bisogno.
Bruno Magnolfi