Avevo chiuso gli occhi; ciò nonostante numerose luci avevano continuato ad affollare il mio campo visivo, un sipario buio costellato da punti illuminanti tutti identici. Intorno a me sentivo gli alberi del viale che lasciavano le loro foglie muoversi sotto alla brezza leggera che spirava senza una precisa direzione, il traffico era scarso, un giorno come gli altri, provavo un’improvvisa voglia di chiuso, di solitudine, di intimità, una concessione non permissibile. Un senso di malato mi pareva avesse inondato tutta la mia persona: le mani lungo i fianchi mi sembravano odiosamente piene di sangue pesante e raddensato, le mie gambe continuavano a muoversi soltanto per una sorta di abitudine. La mia testa pulsava, senza neppure pensieri veri e propri, ma come in assenza di controllo, ruotando in mezzo a un niente assurdo, che avrei desiderato il più possibile evitare.
Chiudere gli occhi ogni tanto era quasi un atteggiamento di autodifesa, non proprio un vero desiderio di non esserci, piuttosto un fare finta che quella parte di città storpiasse nella mia mente la sua natura, fino a risultare alla mia vista un posto differente da com’era, un altro luogo, anche se non meglio definito. Le luci fluttuavano nel buio del mio campo visivo, sotto alle mie palpebre abbassate, riuscivo ad osservarne la scia mentre si muovevano in maniera lenta, come animate da una vita propria, corpi luminosi che continuavano a irradiare la loro presenza da distanze inaccertabili.
Muovevo i miei passi lungo il bordo di un qualcosa che assomigliava sempre più al filo di un rasoio, un punto di equilibrio assolutamente incerto e instabile: non mandavo avanti un piede con la coscienza di ciò che sarebbe potuto accadere al passo successivo. Tutto si completava nella manifestazione di una sola azione, non di due o cinque oppure cento: il futuro era soltanto quello possibile entro il raggio di un secondo, forse due, quasi esclusivamente in tempo reale, il presente stretto, il resto non era rivestito di importanza. Pensare, progettare, parole senza alcun significato, che lasciavano soltanto la coscienza dolorosa di un’incapacità macchinata ad arte, che era meglio seguire in modo esatto.
Continuavo a chiudere gli occhi per qualche frazione di secondo, tutto mi pareva in qualche modo più accettabile così, ma non perdevo il senso della mia presenza sul viale: mi sentivo osservata in ogni momento, forse da dietro quelle braci di sigaretta così distanti da brillare giusto per un attimo, e poi sparire. Non c’era altro: il vuoto pneumatico dell’impossibilità di qualsiasi altra scelta era evidente, tanto valeva cercare di immaginare il buio in qualche modo, privo di quelle luci che continuavano ad affollare il mio bisogno di non essere.
Bruno Magnolfi
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