Il giorno successivo il signor Martin mi prende da una parte e senza dire niente mi rifila un pacco di dischi di vinile, come se fosse la lezione da fare. Passano altri giorni in cui io bighellono avanti e indietro facendo i miei paradiddle su un vecchio rullante e su qualsiasi superficie piana che trovo, fino a che spunta di nuovo il signor Martin che mi dice di salire dietro a una vecchia batteria Pearl sopra al palco, mentre lui mette su la registrazione di un pezzo senza capo né coda di Anthony Braxton ai fiati da solo.
Stacci dietro ragazzo, dice senza dare troppa importanza alla cosa, e così io cerco di fare del mio meglio, ma è quasi impossibile perché tutto mi scappa continuamente da qualsiasi parte, e io rullo e schiaccio quanto posso sul ride e sopra ai tom, ma il tempo è una concezione astratta in quel pezzo, così ad un tratto rallento, mi calmo e comincio poco alla volta a capire cosa ci sia veramente da fare. Inizio a concentrarmi su una mia cosa senza più rincorrere niente, invento in un lampo un tempo dispari senza accentarne la battuta, e ad un tratto mi accorgo che Braxton sta quasi venendomi dietro. Poi la registrazione finisce, il signor Martin è già andato via, ma io sento dentro una carica da aver bisogno di suonare per due ore filate.
Il giorno successivo il signor Martin mi fa salire di nuovo sullo sgabello, mi dice di suonare con calma qualcosa tanto per scaldarmi, e a un certo punto fa venire uno dei ragazzi con uno di quei bassi a cinque corde e una passione sfrenata sia per il funky che per Marcus Miller. Faccio del mio meglio appena attacca, ma sento subito che me la sto cavando benissimo, quello è velocissimo e virtuoso ma manovra su tempi facili anche se è sempre in levare, così faccio la stessa cosa e tutto funziona senza problemi.
Il signor Martin annuisce e fa cenno di smettere a un certo punto, dice: va bene; sa che conosco a menadito gli standards, e così adesso posso entrare nella sua scuola di jazz. Si va avanti per una decina di giorni ad un ritmo infernale, suonando e provando ad ogni ora possibile i pezzi più differenti, fino a che, durante una pausa, scopro su un manifesto che c’è il mio nome dentro a un quintetto per rivedere la roba di Coltrane in un concerto da fare nella serata seguente. Il signor Martin mi guarda con la coda dell’occhio e mi fa un cenno. Vado verso di lui, lui sorride, dice: non preoccuparti, segui il tuo istinto, andrà tutto benissimo.
Inizio a suonare regolarmente una volta la settimana in parecchi locali con quel quintetto, e anche in qualche teatro, poi si fa un piccolo tour che va avanti due mesi. Quando si torna il signor Martin ha appena avuto un colpetto, così lo andiamo a trovare in ospedale. Stiamo lì tutti assieme con i sorrisoni ed il resto, e lui dopo un po’ mi fa un cenno, io mi avvicino e lui dice un po’ sottovoce: ragazzo hai della stoffa. Nei giorni seguenti lui se ne va, e noi poco dopo ci chiudiamo dentro a una sala e registriamo il disco dei pezzi su cui abbiamo lavorato per tutto quel tempo.
Certe volte lo sogno, il signor Martin, mentre mi dà affettuosamente una pacca sopra la spalla e mi sorride. Non mi ha mai dato una pacca sopra la spalla, penso subito quando mi sveglio, ma a me piace ricordarlo così, come se avesse avuto per me anche quel gesto.
Bruno Magnolfi
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