Lui adesso muove le gambe, come mimando il gesto di camminare, pur restando praticamente fermo nel suo metro quadrato di spazio, circondato dai vetri antiproiettile, tra i quali sono state lasciate soltanto due aperture laterali, due lunghe fessure verticali dalle quali sparare eventualmente con il fucile di precisione. Pensa vagamente a sua moglie, fantasticando con maggiore dolcezza di quella che ritrova ogni giorno intorno ai suoi lineamenti, e se la immagina come altre volte nel loro appartamento, intenta ad occuparsi di qualcosa, oppure seduta, ferma, in silenzio, con la radio accesa che ne accompagna l’immagine. Poi lui appoggia per un attimo il calcio del suo fucile per terra, e la canna sul vetro, sistema i calzoni della divisa, la cintura, tira un profondo sospiro. E’ una persona come tutte le altre, pensa, anche se svolge il suo turno di lavoro là dentro, un luogo freddissimo in inverno, un forno crematorio d’estate.
Scorrono gli anni così, tra un turno e quell’altro, a tenere d’occhio in maniera costante duecentottanta metri di perimetro del supercarcere, che non è stato violato mai da nessuno, fin dal momento in cui fu costruito. E’ la mia vita, dice certe volte alla moglie, ma non riesce a dire a nessuno quali siano i suoi pensieri che scorrono a volte là dentro, quando la solitudine diventa più forte e impellente di un semplice starsene soli, quando cerca di concentrarsi sul suo campo visivo assegnato, senza neppure riuscire a vederlo davvero, tanto pare immobile e deserto ciò che è davanti ai suoi occhi, quasi un niente perfetto, senza alcuna eccezione.
Poi torna a raccogliere da terra il suo fucile di precisione, qualcosa passa nella sua mente, ma lui sembra sorridere ad un pensiero che sembra forse uno dei soliti, un’idea qualsiasi, nata solo per occupare la mente. Imbraccia la sua carabina, resta fermo così per qualche secondo, con i muscoli tesi, infine, con grande lentezza, fa uscire la canna dalla feritoia di destra, non più di dieci centimetri, e punta qualcosa nel niente, lungo il perimetro grigio e polveroso della recinzione in acciaio e cemento giù in basso. Attende ancora un momento, chiude per un attimo gli occhi mentre tiene il viso contratto nel punto preciso da dove si può prendere esattamente la mira; concentra i pensieri su qualcosa che sembra lontano, irreale, sfumato, cerca con sofferenza di pensare nuovamente a sua moglie, alla radio, alla casa, ma tutto gli appare distante, oltre tutte le recinzioni che può immaginarsi. Richiama alla mente qualcosa della sua vita racchiusa in quella porzione di tempo compresa tra le tante cose che girano certe volte nella sua testa, quelle che normalmente ci sono durante il suo turno di guardia, ma che adesso non servono, perché lui non si sente più costretto nel vetro, sopra quel pavimento di calcestruzzo; non c’è: lui non si sente più lì.
Tira con calma il grilletto della sua arma, gustando profondamente quel senso liberatorio del colpo che parte quasi in silenzio, continuando a puntare quel centro esatto del nulla. La fucilata si perde mostrando un rumore lontano secco e deciso, forse rimbalzando sulla superficie d’acciaio della recinzione, e la sua spalla accoglie piacevolmente il rinculo, il senso più materiale e profondo di tutto lo sparo. Resta fermo, ancora qualche momento, poi abbassa l’arma e torna ad appoggiarla per terra, con la canna sul vetro. L’ultimo pensiero che cerca di avere è verso qualcosa che non ha mai veduto, talmente confuso nella sua mente che non saprebbe neppure descriverlo.
Bruno Magnolfi
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