Non
ci vuole molto, è sufficiente costeggiare tutto il marciapiede lungo la
strada principale, poi girare a destra, fingere di entrare in quel
caffè che rimane proprio all’angolo, e invece proseguire per altri
trenta metri circa, fino ad arrivare al portone perennemente aperto di
quel condominio. Così fa il signor Effe, più o meno tre volte alla
settimana. Lei, nell’appartamento del secondo piano a quell’ora del
pomeriggio lo aspetta, ed è già mezza spogliata quando lui arriva, così
si scambiano qualche parola di circostanza nel piccolo ingresso, quasi
un principio di affetto, poi si trasferiscono in camera, dove tutto in
genere si conclude abbastanza velocemente, senza altri eccessivi
preamboli. Perché in fondo questo aspetto non è certamente ciò che conta
di più.
Il
signor Effe, al momento che rimangono sdraiati, ormai fermi, rilassati,
nella penombra delle tende tirate, quasi senza avere ulteriormente
altro da fare, in genere inizia col dire qualcosa sottovoce, quasi
impersonalmente. Lei ascolta, seguono spesso delle pause di silenzio,
poi lei comincia a raccontare qualcosa di sé, delle sue difficoltà, dei
suoi pensieri leggeri sul suo pesante passato, e certe volte anche di
quell’esistenza sempre un po’ sbagliata, con quel senso di colpa sempre
attuale, anche se non c’è alcuna colpa, devi convincerti, le dice a
volte il signor Effe con tutta la semplicità che riesce a trovare. Non
c’è neppure da crucciarsi troppo, ribadisce lui, è andata così; ma lei è
testarda, dice ogni volta che ha sbagliato tutto, che avrebbe dovuto
fare ben altre scelte, non ritrovarsi in questa maniera; ma in quei
momenti, quando aveva affermato le cose in cui credeva, e forse aveva lo
spirito adatto per portarle in avanti, non c’era stato mai nessuno ad
aiutarla, a darle un minimo credito, a sostenerla in qualche maniera.
Lui
ascolta, capisce perfettamente che quelle parole sono vere, ed è tutto
tremendamente serio quello che gli viene riferito, ma non può ormai fare
niente, se non continuare ad ascoltare e sentire una stretta dentro di
sé, tanto forte che certe volte non vorrebbe più andarsene via, o
allontanandosi vorrebbe semplicemente lasciarle qualcosa, qualcosa di
suo, di intimo, di personale, superiore a qualsiasi promessa, oltre
qualsiasi ricerca di quella stupida manciata di parole capaci forse di
pacificare momentaneamente i pensieri di lei, ma buone a nient’altro.
Che senso ha che le dica o cerchi di dimostrarle che provo degli
autentici sentimenti per lei, riflette. Il signor Effe tenta di evitare
quel senso di ridicolo che pensa ne scaturirebbe inevitabilmente, così
tiene quasi tutto per sé, ma ci sta male, lo sente, c’è una parte
sostanziale di irrisolto anche nelle sue giornate.
Infine
il signor Effe cammina per strada, attraversa con regolarità sui
passaggi pedonali, guarda qualche vetrina, finge di non avere niente di
importante da fare quando esce da quella casa, e invece si rende conto
quasi d’improvviso che sarebbe tutto diverso senza di lei, che non può
più fare a meno di quell’equilibrio che si è creato tra loro.
Contemporaneamente si sente morire sempre di più quando sale quei
medesimi gradini fino a raggiungere l’appartamento del secondo piano.
Vaga senza una meta, e pensa, i suoi pensieri si fanno sempre più fitti e
più forti, e si mescolano ormai con quella oppressione che avverte e
che ritiene ingenerosa verso se stesso e forse anche verso di lei.
Infine decide di restare a girare lungo le strade: non devo più andare
da lei, pensa; non intravedo nessun tratto positivo nel continuare
questa frequentazione ormai troppo affannosa.
Bruno Magnolfi
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