domenica 13 maggio 2012

Lo scrittore (ritratto n. 5).


Lei che cosa fa di lavoro, mi chiese l’uomo con la camicia azzurrina, da dietro la sua grande scrivania di legno scuro. La luce dalla finestra entrava rimbalzando su chissà quanti muri, costretta come doveva essere in quel cortile interno umido e sicuramente pieno dei miasmi fognari di là dai vetri, anche se conservava ancora una sua luce calda, una specie di piacevole apparenza del giorno, come se il principio attivo delle molecole solari fosse ancora in qualche modo presente nell’aria.

Io avevo abbassato lo sguardo, avrei voluto forse prendere tempo, iniziare qualche frase con un aggettivo, o porre a mia volta una domanda, ma risolsi in un attimo che qualsiasi paravento sarebbe stato interpretato in modo sbagliato. Così dissi soltanto: lo scrittore, con timidezza, senza specificare alcunché, lasciando che quella persona che mi interrogava si formasse l’idea che voleva. Era evidente, secondo il mio modo di pensare le cose, che quella professione era l’unica che avrebbe potuto svolgere una persona com’ero io, ma forse la mia concezione era un po’ costruita, così feci un leggero sorriso per riempire il silenzio vagamente imbarazzante. L’uomo aveva appuntato qualcosa sopra un registro, poi era tornato a guardarmi, senza cambiare espressione. Mi ricordava qualcosa con quei suoi modi di fare, ma cercai di non riflettere su questo aspetto, per non cadere in presupposti sbagliati. Il modulo per l’accettazione lo avevo già consegnato per tempo, quel dirigente lo aveva trovato dopo una veloce ricerca tra mille altri fogli e altrettanti documenti, eppure c’era qualcosa che non riusciva a convincerlo, tant’è che continuava a indagare sperando di trovare, probabilmente, quell’elemento perfetto per dire: ci dispiace, persone come lei non ci servono affatto.

Non so neppure, fin dall’inizio, per quale motivo mi fossi ripromesso di entrare all’interno della grande associazione di cui la persona che avevo davanti era probabilmente soltanto un semplice membro. Difatti, già entrando là dentro, una volta ricevuto per posta l’invito a presentarmi in quel preciso giorno e a quell’ora, mi era parso di non aver compreso qualcosa, come se mentalmente mi fossi atteso un trattamento del tutto diverso. Adesso ero disposto a rispondere a tutte le domande che mi avrebbero posto, ma unicamente per comprendere appieno quanta distanza ci fosse tra me e quei modi di fare e di essere.

Immagino che lei sia consapevole delle cose di cui noi ci occupiamo, disse quell’uomo; ed io, che davo per scontata quella serie di elementi, ebbi un attimo di profonda perplessità, fino a rispondere che no, non ne ero del tutto a conoscenza, immettendo nelle mie parole una certa ironia che forse non venne compresa, e fu subito accettata con uno sbuffo malcelato. Qui cerchiamo sempre di avere delle idee precise, su tutto quanto, disse infine il mio interlocutore; in ogni caso adesso è tutto più chiaro, e le faremo avere una risposta al più presto.

Mi sentii sollevato nel comprendere che tutto il colloquio terminava con quelle parole, strinsi con naturalezza la mano a quell’uomo, mi sollevai dalla sedia e mi resi conto in un attimo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei avuto qualcosa a che fare con la loro organizzazione, e che non sarei entrato mai più in quella stanza. Mi parve però un privilegio essere riuscito ad arrivare fin lì, così sorrisi ancora una volta, prima di uscire. Non si preoccupi, disse ancora quell’uomo: è soltanto questione di tempo.

Bruno Magnolfi

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