mercoledì 30 maggio 2012

Meditazioni sul niente. 3.



Osservo il sentiero bianco e sassoso da una feritoia del castello, e mi sembra non ci sia proprio niente da segnalare, almeno per il momento. So che le mie mani non potranno mai afferrare l’immagine a cui penso spesso, però mi attendo di vedere qualcosa di cui tutti prima o poi parleranno, qualcosa che sarà meraviglia per chiunque abita in questa regione. Il vento muove gli alberi ai margini del bosco poco distante, potrebbero essere nemici appostati che si passano le consegne l’un l’altro, ma cosa importa, questo luogo è inaccessibile ad ogni esercito, figuriamoci a dei disgraziati mal nutriti e pieni di sonno che hanno percorso chissà quanta strada disagiata per arrivare fin qui. Chissà con quali parole e quali lusinghe sono stati tenuti su fino adesso, rifletto; chissà che cosa è stato loro promesso per farli affrontare una cosa del genere, e quali speranze sono state fatte nascere dentro ognuna di quelle teste che adesso forse stanno là, nascoste, da qualche parte. Forse soltanto la voglia di sostituirsi a noi, di ritrovarsi al nostro medesimo posto, qua dentro, in questo luogo dove non sanno quanta falsità e repulsione si respiri davvero.

L’immagine che cerco di stringere è qualcosa che non ha a che fare con niente di tutto ciò, ed anzi si sbarazza di questa ostilità e queste difese continue, e lascia che la gente, di qualsiasi luogo essa sia, viva al meglio che può, nel rispetto ognuno dell’altro. Ma se parlo di cose del genere qua, nel castello, vengo subito gettato nella segreta, e allora stringo i miei pugni e proseguo a fare quello che tutti continuano a dire sia il mio dovere: assomigliare alle persone che ho più vicine, pensare le stesse cose che pensano loro, non lasciarsi neppure sfiorare da un’idea differente.

Osservo ancora quanto mi è stato dato in consegna, ma se stringo gli occhi per vedere un po’ meglio, immagino subito qualcosa che forse non c’è: contadini festanti, cortei di ragazzi e bambini che portano gioia e novità in questa lugubre casa di pietra. Non devo lasciare che queste idee prendano il sopravvento dentro di me, devo resistere, mostrarmi come ogni altro, lasciare che tutto sia perfettamente come dev’essere. La feritoia da cui osservo l’esterno è già un principio di offesa: ci infilo dentro la faccia, lascio che la pietra scura dei muri combaci contro il mio viso, come hanno già fatto centinaia di persone prima di me, e mi pare che il mondo che vedo sia, forse proprio per questo, maggiormente deforme, privo di quella naturalezza nella quale ancora voglio credere nel più profondo della mia persona.

Infine tra gli alberi qualcosa si muove davvero: sono uomini, donne, umana vestigia che viene a dar prova di sé, delle proprie voglie e delle proprie idee, ed io rimango fermo, paralizzato nel credere non ci sia niente di brutto in quello che avviene. Il sentiero bianco e sassoso si riempie di gente, la vedo, anche se è scuro, sarebbe facile dare l’allarme, spiegare cosa sta effettivamente accadendo, lasciare che i soldati di guarnigione ci sbarazzino in fretta di questo problema, che forse problema non è. Poi appoggio la faccia ancora meglio sopra la pietra, so cosa dovrei fare, so perfettamente cosa ci si attende da me, eppure rimango qui, presso la mia feritoia, ad osservare qualcosa che forse è soltanto l’immagine che ho cercato di stringere tante volte nelle mie mani: quella del cambiamento, quella che resterà forse per sempre illusione, ma che è tanto dolce quando appare così, e lascio che tutto avvenga senza la mia pur minima partecipazione, anche se so perfettamente che anche questo è un errore.

Bruno Magnolfi

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