domenica 16 gennaio 2011
Scena n. 14. Sogni e finzioni.
Ernesto è vestito elegantemente, addirittura con un fazzolettino di seta che sporge dal taschino della sua giacca. Arriva sul palco con passi lenti, fumando la sua sigaretta come se fosse talmente sicuro di sé da non aver bisogno di altro, se non quel suo sguardo ipnotico, quasi malato, di chi vive delle proprie convinzioni, e non ha bisogno di altro. Continua a fumare con i suoi gesti lenti, la faccia quasi una maschera, si guarda appena un po’ attorno, giusto per rendersi conto della scarsa mobilia da cui è circondato in quella stanza dove adesso si trova, quasi non fosse la casa che abita, quella dove vive la sua famiglia.
In un angolo una donna sta lì, seduta, immobile, non dice niente, non fa alcuna domanda, non ha bisogno di sentire la voce di Ernesto per sapere quello che pensa, e lui semplicemente la ignora, o almeno finge che neanche ci sia, o di non averla veduta. Lei guarda nel vuoto, ed è come se pensasse: a cosa serve vedersi, parlare, scambiare delle opinioni attorno alle quali trovarsi probabilmente d’accordo, oppure no? Neppure questo fa differenza. I miei pensieri spesso si alzano accompagnati dal vento, come aquiloni, ed io certe volte mi perdo seguendo le loro traiettorie. Nessuno mi segue in questi percorsi, così resto distante da tutti, anche dal mio compagno, è così, è inevitabile.
La donna si alza, fa due passi in avanti, si ferma davanti al pubblico immerso nel buio, e dice d’un fiato: sto bene, non c’è assolutamente da preoccuparsi; questa è la mia casa e qui dentro c’è tutto quello che nella mia vita sono riuscita a desiderare. I vicini e i conoscenti mi fermano spesso per strada, dicono che sono una bella signora, piena di vita e di allegria, si vede da lontano che tutto mi va a gonfie vele. Io lascio dire, abbasso lo sguardo per timidezza, forse mi schernisco perché, anche se non sono perfettamente d’accordo, certe cose mi piacciono, mi fanno addirittura arrossire.
Perché mai non dovresti essere d’accordo, dice Ernesto senza guardarla; in fondo quello che vedono quelle persone, risponde a verità. Oppure pensi che sia doveroso cercare di fingere qualcosa, affinché gli altri non stiano a chiederti cose che ti potrebbero creare disagio? In un caso o nell’altro non risulti essere affatto la persona che pensano, visto che certi aspetti dici ti piacciono, però non sai sostenerli, non ti interessa dire la verità, perché questa ti sembra vada a scapito di qualche altra cosa. Alla fine ti poni dentro una gabbia, e spieghi però che stai bene così.
La donna si volge lentamente verso il vestito elegante di Ernesto, poi torna a guardare la gente immersa nel buio. Non ci sono delle ragioni precise, dice pesando le sue parole; ma all’improvviso, dopo tutti questi anni, mi sento completamente da sola. Ho tirato su questa casa, questa famiglia, ma alla fine vedo che si è formata un’enorme distanza tra me e tutti gli altri. Per questo forse rifuggo da tutto, ma il percorso non è solo mio, è l’incomunicabilità generale che ci ha portati fin qui. Adesso mi accontento di sognare, e fingere certe volte che i sogni siano la realtà.
Ernesto si fa avanti, si rivolge al pubblico adesso con una espressione diversa, getta a terra la sua sigaretta, muove una mano come in aiuto alle parole che vorrebbe esprimere, muove il tronco, la testa, si guarda attorno, apre la bocca, si pianta dritto sui piedi, si irrigidisce, tira su il collo, spalanca i suoi occhi, guarda lontano, alle file più buie della platea che ha di fronte, a tutti coloro che lo stanno seguendo, che non perdono neppure un piccolo gesto; e infine: resta semplicemente in silenzio. Si chiude il sipario.
Bruno Magnolfi
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