L'evidenza dei gesti.
Si era deciso a passare davanti alla palazzina dove lei abitava, non riusciva più a resistere senza concedersi almeno quel tentativo. Aveva un disperato bisogno di rivedere il suo viso, la sua espressione, incrociare il suo sguardo, magari sentirne la voce, perché continuare da lontano, lungo la strada, ad osservare le finestre del suo appartamento, non era assolutamente più sufficiente.
Aveva percorso il marciapiede quasi di fretta, come avesse un impegno preciso, ma quando si era ritrovato davanti al portone condominiale si era accorto che era socchiuso. Aveva spinto leggermente il battente, e in un attimo era entrato, senza pensieri, come fosse la normale prosecuzione di tutte le cose. L’andito era buio e silenzioso, lui si era fermato, aveva osservato l’inizio del corrimano di legno di fianco alle scale, e aveva pensato alla mano di lei che lo sfiorava ogni giorno, mentre saliva o scendeva. Poi aveva messo un piede sul primo gradino, ma non per affrontare davvero la scala, anche se sapeva perfettamente che abitava al secondo piano, quanto per illudersi di provare le stesse sensazioni di lei.
Lentamente i suoi piedi si erano mossi per portarlo quasi autonomamente verso il suo appartamento, e lui aveva aspirato con piacere l’aria fresca e immobile, forse profumata di lei. Qualcuno, provocando un rumore secco e inquietante, aveva azionato in quel momento, mentre lui era già al primo piano, il motore elettrico dell’ascensore, facendolo sentire perduto, come se all’improvviso fosse evidente che era una sciocchezza e un errore trovarsi lì. Stava immobile, appoggiandosi al muro, cercando come di scomparire in quei pochi secondi in cui l’ascensore lasciava sentire distintamente la sua corsa dall’alto fino al basso. Infine, dopo un debole ticchettio di suole di scarpe, il silenzio fu ripristinato, e lui si senti di nuovo in dovere di salire ancora, fino al piano superiore.
In un impulso insensato aveva creduto possibile suonare il suo campanello, farsi trovare sul pianerottolo al buio, disarmato di qualsiasi ragione, ma accantonò velocemente l’idea. Non c’era un motivo per arrivare fin lì, pur cercandolo in ogni maniera: solo uno sciocco poteva comportarsi in quella maniera, eppure consapevole di questo, lui continuava lentamente a salire un gradino alla volta, lentamente, come fosse un’attività inesorabile. Infine era davanti al portone, come se una forza sconosciuta ce lo avesse fatto arrivare, e il silenzio che intorno continuava a regnare, mostrava perfettamente quanta immobilità ci fosse in quella logica scandita dal niente.
Nei suoi desideri, lei avrebbe aperto la porta, come cosciente della sua presenza; lo avrebbe accolto, si sarebbe mostrata felice di quel sacrificio, della sua forza di volontà, di quel mostrarsi così deciso ad andare fino in fondo alle sue convinzioni. Il senso di sospensione era fortissimo, il terrore che qualcosa o qualcuno interrompesse quell’attimo, sembrava l’unica controindicazione allo starsene sul pianerottolo, fermo, quasi premuroso anche di non respirare. Forse si commosse, ma giusto un momento, cercando di immaginare i pensieri di lei, i gesti, i comportamenti; infine si mosse per andarsene via, non c’era altro da fare. Scese i gradini senza quasi più sangue dentro le vene, senza più forza che lo sorreggesse, e giunse al portone affrontando la violenza dell’esterno e della strada. Lei era lì, d’improvviso, le chiavi dentro una mano: lo guardava, poi si faceva vicina, gli sfiorava il viso con le sue labbra, con un dolce sorriso, senza dir niente, come se tutto fosse già più che evidente.
Bruno Magnolfi
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