domenica 2 settembre 2012

Uno di noi.



Riuscendo ancora a conservare alcuni amici fedeli che mi fanno sapere di tanto in tanto le cose che mi riguardano, so per certo che ci sono degli individui che continuano a cercarmi al mio vecchio domicilio, presumibilmente per propormi, non potrebbe essere altrimenti, qualche nuovo contratto, o al massimo per prendere delle semplici informazioni sulla mia recente attività di autore e scrittore. Naturalmente nessuno di loro sospetta che io sia riuscito a ultimare soltanto un piccolo volume, la cui pubblicazione ha avuto, questo è vero, un certo successo, e che dopo quello, mi sia deciso a non fare nient’altro, e che, terminata quell’esperienza, io abbia smesso del tutto di scrivere.

Ho sempre sentito dentro di me la determinazione ad andarmene via, fin da ragazzo, andarmene da qualsiasi luogo o città in cui mi trovassi: è qualcosa che fa parte della mia natura, in pratica, un sentirmi permanentemente a disagio dopo essere stato per un po’ in un medesimo posto. Perfino cambiarmi di nome fa parte di questo tipo di fuga da tutto, anche se, certo, per evidenti ragioni, dopo qualche tempo si viene facilmente a sapere verso dove abbia cercato di dirigermi e in quale maniera, e soprattutto sotto che nome mi stia nascondendo. Ma a me non interessa per niente ciò che tutti possono pensare dei miei comportamenti: sono cose mie, rifletto, semplici forme di esistenza che forse non ricevono apprezzamenti dagli altri, ma che alla fine fanno parte soltanto della mia sfera privata.

Così certi miei amici mi dicono che in tanti sarebbero pronti ad offrirmi dei soldi e delle condizioni di estremo vantaggio, sotto tutti gli aspetti, se soltanto io tornassi indietro rispetto alle mie decisioni, magari riprendendo ad abitare la mia vecchia casa, ma soprattutto ricominciando a scrivere un libro; sostengono questi che sarebbe un successo sicuro, basterebbe soltanto facessi avere, a qualche professionista dell’editoria, l’incipit di un nuovo romanzo, o almeno a grandi linee del progetto di questo, oppure di un racconto pur breve, ma esaustivo della mia voglia di scrivere.

Ma a me non interessa: ciò che avevo da dire e da scrivere l’ho fatto, e si può trovare e leggere ancora; andare avanti in quella maniera per me non è proprio il caso: non ho mai avuto la stoffa della scrittore, dico sempre a chiunque mi interroghi su questo argomento, figuriamoci dover affrontare delle serate costruite di proposito per promuovere qualche nuova edizione, o dover partecipare, in qualche libreria sparsa in chissà quale città, ad assurdi dibattiti sul lato oscuro del protagonista del mio nuovo romanzo, e rispondere alle domande del pubblico soltanto per invogliarlo a comprare qualche copia del libro. No, non fa per me; anzi, mi diverto addirittura a pensare qualcosa del genere, adesso che mi sembra un’assurdità, un qualcosa che non sta più in nessun modo nelle mie corde, come spesso si dice oggigiorno.

Rimango solitario in questo paesino dove non mi conosce nessuno, e dove, nella bottega dei generi alimentari, si rivolgono a me in questo modo: buongiorno dottore; proprio a me che appena è riuscito di diplomarmi; ma lo fanno con semplicità, come probabilmente direbbero per rispetto a qualsiasi forestiero fosse arrivato fin qui. Non mi chiedono niente, nessuno di loro, però mi guardano, curiosi, osservano con attenzione le espressioni che assumo col viso e con le mani, perché a loro basta, sanno perfettamente che ad uno che viene da fuori e che ha una faccia come la mia, è naturale non chiedergli niente: ha sicuramente un passato alle spalle, ma è qualcosa di cui non vale la pena neanche parlare, pensano tutti; come d’altra parte tutti noi ne abbiamo uno, è normale, pensano ancora; e non ci vorrà neppure troppo tempo affinché, anche senza averci detto chi sia veramente, questo straniero diventi, con semplicità e con una grande naturalezza, proprio uno di noi.

Bruno Magnolfi


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