mercoledì 26 gennaio 2011

Pomeriggio sospeso n. 2.




Si era vestita, togliendosi la sua vestaglia da camera e scegliendo con calma gli abiti adatti per una passeggiata nel suo quartiere, senza neppure una meta precisa. Si era osservata più volte davanti allo specchio che teneva in un angolo, infine si era spazzolata i capelli, poi era tornata nel salottino. Non aveva una gran voglia di uscire di casa, questa era la verità, però sentiva suo preciso dovere smuovere quell’aria magica che lui, quando era uscito, si era lasciato alle spalle. I loro incontri clandestini erano così, spesso nascevano all’improvviso, e molte volte si consumavano in fretta, come un’idea, un pensiero, una supposizione. Mise via i due calici in cui avevano bevuto, sistemò qualche cosa senza importanza, poi cercò le chiavi di casa.

Fu sufficiente non riuscire a trovarle al solito posto, per farle tornare a mente i suoi modi, quel suo sorrisetto quando saliva le scale dietro di lei e attendeva che aprisse la porta dell’appartamento, oppure quando arrivava e restava lì fermo, sul pianerottolo, prima di decidersi a entrare. Avrebbe dovuto farne una copia di quelle chiavi, pensò con un sottile senso di auto rimprovero, come se avesse dovuto già averci pensato, poi immaginò se stessa rincasare e trovarselo lì, come un regalo portato da una bella giornata.

Lei avrebbe sorriso, senza parole, forse le sarebbero spuntati due lucciconi negli occhi per quella gioia improvvisa, e senza far altro lo avrebbe abbracciato, come a trattenerlo per sempre, o a stringere a sé tutta quella emozione. Si avvicinò alla finestra e tornò ad osservare i tetti delle case vicine, e quel campanile poco più là, svettante sul resto. Si accostò al tavolino e aprì il suo diario. “Fantastico averti con me…”, scrisse quasi senza pensare, come se già quelle parole, quelle semplici lettere sopra la carta fossero sufficienti a non farla sentire da sola.

Poi chiuse le pagine e tornò nella sua camera: doveva cambiarsi, pensava, vestirsi in una maniera migliore, perché quello non era un pomeriggio qualsiasi, lui era stato lì poco prima, assieme a lei, e soltanto questo era già qualcosa sicuramente da festeggiare. Indossò un camicetta spiritosa, un colore sgargiante, allegro, proprio come lei aveva voglia di essere, infine chiuse l’armadio per tornare nell’altra stanza.

Forse le avrebbe telefonato quella sera, pensò; forse non avrebbe dovuto neppure pensare di uscire, avrebbe dovuto star lì, aspettare che la sua fisionomia si materializzasse di nuovo, come per una magia. Prese il soprabito con dentro le chiavi e chiuse il portone dietro di sé. Lungo le scale continuava a pensare ai passi di lui che avevano solcato i gradini soltanto poco prima. Non avrebbe mai accettato una copia delle sue chiavi di casa, pensò: troppo concreto, troppo realistico un oggetto del genere; lui era diverso da tutti, incontrarlo aveva il fascino di una prima e di un’unica volta, come se il tempo stesso annullasse qualsiasi altra possibilità.

Quell’appartamentino era suo, non c’era niente da dividere là dentro se non quei momenti, quando la presenza di lui rendeva improvvisamente vere tutte le cose. Raggiunse il marciapiede davanti al portone del condominio, e rimase lì, immobile, quasi perplessa. Dette soltanto uno sguardo fuggevole a tutta la strada percorsa dalla solita gente, dalle auto veloci, dalle persone ordinarie. Tornò in fretta a salire le scale, e quando chiuse la porta alle sue spalle fu come ritrovare lui di nuovo tra quelle sue stanze, e questo in fondo era tutto ciò che contava.

Bruno Magnolfi

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