mercoledì 24 agosto 2011

La libertà oltre il molo.



La strada di asfalto grigio scendeva lentamente fino al piccolo porto marittimo, in un caldo di polvere, di erba secca e generale sentore di gasolio. All’attracco non c’era quasi mai più di una nave alla volta, due in situazioni eccezionali, e sul molo alcuni vecchi si ostinavano a pescare a bolentino dei pescetti senza troppa importanza, ma più per passare il tempo che per sentirsi davvero utili a qualcosa. Il caldo estenuante, sottovento al promontorio, pareva quasi un’ironia nei confronti di qual mare scuro e intenso che si frangeva in schiuma bianca solo oltre mezzo miglio fuori al largo, in una striscia ricca di vento, di correnti fresche e di senso di libertà, lungo quel solco immaginario che lasciavano le navi appena se ne andavano.

In bicicletta, praticamente ogni giorno, lui scendeva, tenendosi sui freni, fino giù alla marineria, cercando qualcuno con cui scambiare quattro parole che spesso si moltiplicavano, fino a replicare i medesimi argomenti di altre volte, discorrendo delle scarsissime novità che venivano registrate in quei dintorni, e nell’attesa di risalire col fresco della sera fino al poggio riarso che dominava quella piccola insenatura naturale, quasi nascosta al mare aperto da quel braccio di roccia, come un gigante che ne cautelasse una preziosa intimità.

Solitamente lui entrava con calma nell’unico caffè all’aperto, quando non si fermava ancora prima, e si sedeva su di una seggiola di alluminio rivestito, conservando l’aria di chi può permettersi una pausa, ma con un’espressione quasi da introverso, il cappello sulla fronte e la camicia azzurra, da marinaio in attesa. Quel pomeriggio di fine agosto sembrava poi che tutte le persone che normalmente frequentava si fossero tenute bene alla larga da quel piazzale accanto al porto, e lui non si era quasi accorto di quella donna abbronzata, seduta a un tavolo, unica presenza nel caffè, vestito lungo, aderente, bianco sulla pelle, proprio come la schiuma delle onde.

Prese il giornale rimasto sgualcito dalla mattina sopra al tavolo, poi volse la testa verso di lei, proprio mentre la donna diceva al cameriere di servirle per favore un’altra vodka fredda. Cercò qualcosa nel suo vocabolario mentale che potesse corrergli in aiuto, al fine di allungare una parola o una battuta, ma non trovò assolutamente niente, troppa distanza, pur con tanto dispiacere, lo separava da una persona di quel tipo. Fu lei ad essergli d’aiuto, come captando qualcuna di quelle sue lente vibrazioni, e disse solo: non si dovrebbe mai bere con tutto questo caldo, come fosse una frase riferita più a se stessa che a qualcuno pronto ad ascoltarla, ma così lui si sentì di replicare: certe volte però si può essere giustificati.

Lei si sollevò dal suo tavolo, prese il bicchierino e andò a sedersi da lui, proprio lì accanto. Lo guardò un momento, poi appuntò lo sguardo verso il mare aperto là di fronte, assaporando un altro piccolo sorso, come fosse l’ultimo. Quando andarono via, camminando lentamente insieme sulla strada, lui non si accorse di aver dimenticato persino la sua bicicletta, abbandonandola accanto allo stesso marciapiede. Il cameriere del caffè, che lo conosceva da oltre vent’anni, venne fuori da sotto gli ombrelloni, oltre il perimetro dei cespugli mezzi secchi dentro ai grandi vasi di cemento, giusto per guardare quelle figure allontanarsi quasi incredulo; poi scosse la testa, pensò tra sé che forse in ognuno di noi c’è sempre qualcosa di dormiente, qualcosa che neppure riusciamo a immaginare, e infine riprese il suo lavoro, riflettendo che in fondo non era accaduto davvero niente di speciale, mentre forse la vita scivolava via, fino a prendere il largo, sotto ai suoi occhi.

Bruno Magnolfi

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