domenica 11 novembre 2012

In mezzo a tutto.

            
            Respiro con maggiore profondità, cerco di calmarmi dopo che ho colpito a mani nude, con una violenza che adesso, dopo pochi minuti, quasi non mi riconosco neppure, qualcuno che in fondo, forse semplicemente, proprio come me, stava immerso in questa calca incredibile. Sono convinto di aver messo in quel colpo tutta la rabbia repressa che sono riuscito a far emergere in me da questo periodo difficile, quasi la consapevolezza di un momento praticamente senza speranza  che mi ha dettato quel gesto terribile, come fosse un atto definitivo, quasi dipendesse da quello lo sviluppo di un futuro maggiormente accettabile sia per me che per gli altri.
            Adesso mi sono rifugiato nella nicchia di questo portone, guardo la manifestazione che continua a sfilare lungo la strada, mentre qualcuno, laggiù davanti, tira sassi e maneggia le spranghe; altri corrono, in molti sembrano disperati forse del loro stesso spavento, altri, al contrario, semplicemente spaventati dalla loro assurda disperazione. Alcune vetrine sono state spaccate e tutto intorno sembra parlare di violenza, ma soprattutto i celerini continuano a fronteggiare chiunque, come una moderna falange, in un assoluto e minaccioso assetto da guerra, quasi una sfida, una provocazione. Vedo qualcuno a terra già manganellato, giace sopra l’asfalto nelle nuvole dei lacrimogeni, mentre altri tentano di soccorrerlo pur nel caos generale.
            Provo a respirare con maggiore normalità nel mio fazzoletto, ma mi sento stanco, esausto, mi fanno male gli occhi e le gambe per la corsa assurda che ho fatto, e sento un forte dolore anche alla mano sanguinante con cui ho sferrato quel pugno; ricordo soltanto una faccia nemica ad un passo da me, e quella minuta porzione di tempo per decidere tutto: il mio bisogno di scaricare la rabbia coltivata da mesi sopra quell’espressione, senza chiedermi niente, senza interrogarmi su altro, colpire e basta, senza pensare.
            Guardo tutti mentre continuano a girare in quel carosello: ognuno sembra soltanto preoccupato di sé, della propria incolumità, ed io mi rendo conto, nella confusione pazzesca, di aver perso completamente di vista quegli altri, quelle persone con le quali all’inizio avevo raggiunto la mia postazione, alle spalle dello striscione, e come adesso io non riesca più neanche a capire cosa sia meglio che faccia, che senso abbia per me continuare a stare qui o cercare di andarmene, magari sparire prima che tutto degeneri ulteriormente. Mi rannicchio quanto posso sopra questo portone, poi spingo leggermente con la schiena, ma senza nessuna intenzione, e quello si apre.
            Entro titubante in quel grande ingresso buio, riaccosto il portone e mi avvicino al muro; poi rimango lì, a respirare quella calma irreale, quel relativo silenzio, quell’aria buona per i polmoni. Forse vorrei che qualcun altro mi raggiungesse, penso velocemente che non posso restare da solo proprio in questo momento, ho voglia di sapere cosa succede in mezzo alla strada, mi sento terribilmente vigliacco a restare qui immerso in quest’ombra. Ad un tratto si accende la luce elettrica che va ad illuminare improvvisamente un ambiente anche più caldo e piacevole di quello che mi ero immaginato, con una grande scalinata che si apre sul fondo; resto immobile un attimo, attendo gli eventi con gli occhi sgranati, infine scende con lentezza una ragazzina di dodici o tredici anni, con qualcosa dentro una mano. Mi guarda, forse ancora più intimidita di me, allunga un passo, lentissimo, poi dice soltanto: signore, le ho portato un po’ d’acqua da bere.
            Bruno Magnolfi

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