domenica 19 settembre 2010
Poco distante dai pensieri usuali
Poco distante dai pensieri usuali
Il negozio di stoffe esisteva da almeno trent’anni, e vendeva tendaggi, lenzuola, anche qualche tappeto. Ci lavorava una commessa, ma alla cassa e dietro al grande banco di legno in tutti quegli anni c’era sempre stata la proprietaria, una signora ormai anziana dall’espressione bonaria, con l’inseparabile metro di stoffa girato sul collo. La signorina Francesca era la figlia, l’avevo sentita una volta chiamare proprio così dalla commessa, e aveva iniziato ad aiutare la mamma almeno per tre o quattro pomeriggi la settimana, senza grande impegno, a dire il vero e per quanto potevo capire, limitandosi a rimettere a posto le pezze ogni tanto e a servire qualche cliente. Aveva un’espressione triste, quella ragazza leggermente invecchiata; portava generalmente camicette bianchissime e i capelli annodati dietro alla nuca, quasi da assumere l’aria del personaggio di un’altra epoca, con la sua corporatura magrissima, quasi sofferente, lo sguardo da timida, la carnagione olivastra.
Io abitavo al numero sedici di quella strada, nella casa che mi avevano lasciato i miei genitori, appena dieci metri dopo il negozio di stoffe, e ogni volta che passavo davanti a quelle vetrine davo un’occhiata all’interno. Non ci avevo mai fatto caso prima di allora, ma era stato quando avevo notato la signorina Francesca per la prima volta che qualcosa di lei mi aveva incuriosito. Non ero mai entrato all’interno di quell’esercizio, però con il tempo, a furia di osservare i particolari dal marciapiede, era come se conoscessi già tutto di quel posto, come se fossi quasi affezionato a quelle persone che lavoravano là dentro.
Era stata una sera qualsiasi, mentre tornavo a casa come sempre, che era successo di essermi quasi scontrato con la signorina Francesca mentre stava uscendo da dentro al negozio. Scusi, ci eravamo detti ambedue quasi contemporaneamente, e lei lo aveva fatto con una voce che non avrei mai immaginato, non avendola mai sentita parlare prima di allora, dolce e profonda allo stesso tempo, e con una riservatezza nei gesti e nello sguardo che mi aveva attratto ancora di più. Mi ero sentito folgorato, ed avevo iniziato a passare di fronte a quelle vetrine tantissime volte nelle sere seguenti, mai soffermandomi ma rallentando la mia camminata nello spazio di quei pochi metri, con l’intento di rivederla, di darle un saluto, di riuscire a strapparle un sorriso, qualche parola convenevole. Invece non c’era, o diversamente appariva indaffarata dietro a qualche cliente, ed io non avevo trovato più alcun motivo per poterle parlare.
Più la osservavo, la signorina Francesca, durante quei pochi secondi in cui passavo davanti al negozio, più mi sembrava una persona dai modi affascinanti, con quella maniera di tenere lo sguardo abbassato, i capelli raccolti, le sue camicette sempre bianchissime. Potevamo avere la stessa età, e la mia solitudine mi pareva più sopportabile da quando sapevo che lei era là, che mi era vicina in qualche maniera, che forse soffriva del mio medesimo male. Poi decisi che dovevo parlarle, perché non resistevo, non potevo più attendere.
Una sera qualsiasi entrai dentro al negozio, chiesi alla commessa di una tenda da mettere alla finestra della mia camera, poi, mentre quella mi stava mostrando qualcosa, mi voltai verso la signorina Francesca, nello stesso momento in cui anche lei si era girata verso di me. Buonasera, le dissi, e ci sorridemmo, come per un’intesa, così almeno mi parve. La commessa mi fece vedere parecchi colori e altrettante finiture, ma io mi mostrai estremamente indeciso, proprio per lasciare qualcosa in sospeso e tenermi la possibilità di tornare in negozio in un altro giorno. Dissi a voce alta che sarei ripassato, avrei preso meglio le misure che servivano, poi, al momento di uscire, mi accostai appena verso la signorina Francesca, giusto per dirle: allora… arrivederci, con tutto il sentimento sincero che riuscivo a mettere in una sola parola. Lei mi guardò, mi sorrise, poi abbassò gli occhi.
Bruno Magnolfi
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