mercoledì 22 settembre 2010
Scena n. 2. Disperata ricerca.
Sullo sfondo erano stati disegnati degli alberi, e al centro della luce, apparentemente proiettata da un basso lampione, c’era una semplice panchina e un giovane uomo seduto. Una donna cinquantenne entra nella scena con passo malfermo, con espressione sofferente, si guarda attorno, poi dice all’uomo: ho perduto mio figlio; è accaduto diversi anni fa, aveva l’età per andarsene in guerra, forse, ma lui è andato via, ed io non ne ho saputo più nulla. Adesso continuo a girare, ad andare nei luoghi dove immagino potrei ritrovarlo, o forse potrei sentir dire qualcosa di lui, che sta bene, non ha bisogno di niente, che vive la vita, com’è giusto che sia. Lei non ha per caso conosciuto una persona così?
No, signora, dice l’uomo senza scomporsi; io non ho visto nessuno così, tantomeno ho conosciuto suo figlio. Ho girato molto, ho incontrato tante persone, ma nessuna di queste gli assomigliava. Perché ci vuole una persona diversa da tutte per abbandonare sua madre e non farle sapere più niente di sé. Oppure ci vogliono dei motivi talmente gravi per compiere un’azione del genere che non vorrei neppure sentirne parlare. Ma lei, piuttosto, possibile che non sappia perché lui se n’è andato quel giorno?
Ha ragione, dice la donna dopo una pausa, è giusto che lei pensi in questa maniera. Non si fa una cosa del genere se non ci sono dei buoni motivi. Eppure io questi motivi continuo a cercarli dentro di me, in mezzo alle cose che ho detto, che ho fatto, in tutto ciò che posso essere stata, ma ancora non li trovo, non capisco quali ragioni ci possono mai essere state, e per questo continuo a vagare come una pazza, proprio per cercare di leggere negli occhi di chi non conosco una soluzione ai miei dubbi, ai tormenti che ancora accompagnano ogni mio giorno. Lei forse non farebbe altrettanto?
L’uomo intanto si solleva dalla panchina, si guarda attorno con una certa lentezza, poi dice: forse, quello che a lei sembra poco importante, certi gesti o certe parole di scarso rilievo per suo parere, possono essere proprio quelle che hanno innescato tutto il resto. Parlo solo per congetture, sia chiaro, ma non posso pensare nient’altro se non un motivo nascosto, un piccolo elemento insignificante in apparenza, a cui lei non ha dato peso in un primo momento, ma che adesso, forse con un pensiero più approfondito, può rivelarsi quello scatenante, la causa di tutto. Ci pensi, rifletta, non ha forse detto o fatto qualcosa di questo genere?
No, signore mio, risponde la donna di getto ancora prima della fine delle parole dell’altro. Io penso di essere stata per lui una buona madre, di averlo allevato nella maniera migliore, di aver sacrificato tanto della mia vita cercando di dare a lui l’educazione migliore, i più sani principi. Può darsi che qualcosa abbia sbagliato senza accorgermene, ma quale persona sulla terra non ne commette di errori? Com’è possibile che io debba pagare così tanto per qualcosa di cui non riesco neppure a rendermi conto?
Forse, dice ancora l’uomo mentre lentissimamente esce dalla zona illuminata sotto al lampione: in ogni caso si può anche pensare che tutto quello che c’era da dire sia stato già detto; che non ci sia più possibilità alcuna per riprendere un dialogo ormai interrotto per sempre. Forse ogni cosa è compiuta, tanto vale farsene ormai una ragione, guardare avanti comunque, scegliere di pensare soltanto a quello che è stato e non tormentarsi più al cospetto di qualcosa che potrebbe essere stato diverso. Adesso vado via, la saluto, ma non so cosa augurarle: forse quella guerra di cui parlava all’inizio per me deve ancora scatenarsi; ma allo stesso tempo sento dentro di me la necessità di cercarla, di trovare, da qualsiasi parte possa essere, quella guerra per cui da tempo mi sentivo già pronto, e di andare avanti, di perseguire ciò che mi è parso sempre così naturale, perché questo oggi, solo questo, è tutto ciò che mi muove.
Bruno Magnolfi
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