giovedì 30 settembre 2010
Una sera colma di pianto
La donna era uscita di casa dopo aver saggiato a lungo il comportamento migliore da tenere. Ormai era stufa di quei sotterfugi a cui doveva dar seguito e anche di quegli appuntamenti giocati sul filo di pochi momenti, la sua vita aveva bisogno di altro, se ci pensava non capiva neppure come fosse finita in quella relazione adulterina con lui, lui che era solo un vicino di casa, incontrato per caso da solo una sera dentro a un caffè, e che spesso andava da lei solo per rovesciarle addosso le difficoltà con la moglie, i problemi con il lavoro e altre cose del genere. Se ci pensava per bene non sentiva neanche un affetto particolare per lui; certo, c’era stato un primo periodo in cui le era apparso come il miglior uomo del mondo, ma poi le cose lentamente erano andate cambiando, ed adesso tutta quella faccenda le era soltanto di peso.
A lei piaceva sognare, e c’erano stati momenti, questo era vero, in cui lui le aveva permesso di farlo, donandole piccoli pensieri e delicate attenzioni meravigliose. Ma questo non significava un bel niente, ormai i tempi erano diversi, doveva prendere delle decisioni concrete che mostrassero lo spirito differente di cui lei adesso si sentiva pervasa. Per questo aveva atteso per tutta la settimana che lui desse segno di sé, ma come se avesse compreso che qualcosa di negativo stava nell’aria, lui non si era fatto assolutamente vedere, ed aveva evitato di lasciarle anche solo uno dei suoi soliti bigliettini sotto alla porta, come al contrario altre volte aveva fatto.
Si sentiva nervosa, inutile dirlo, non ce la faceva più a stare in casa ad attendere. Per questo era uscita, anche se non sapeva neppure verso dove dirigersi. La serata era fredda e umida, le luci dei lampioni lungo la strada spandevano i riflessi come chiazze di colore sui marciapiedi; tutte le persone in giro a quell’ora apparivano serene, tranquille nel loro passeggiare in compagnia di qualcuno scambiando le proprie opinioni, e divertendosi nel raccontare le piccole vicende che ognuno viveva ogni giorno. La sua solitudine, in contrasto con gli altri, pareva caricata di orgoglio, come se la sua vita fosse costituita da un materiale più forte, e stesse lì, lungo quei marciapiedi, solo per dimostrarlo a chiunque.
I suoi passi casualmente l’avevano portata fino al caffè dove tanto tempo prima si era incontrata una sera con lui, quella volta per pura combinazione, quando mediante l’ausilio di alcuni semplici sguardi tutto aveva trovato un suo seguito. Così, rallentando il suo passo alla vista del locale, si era avvicinata, aveva spinto la porta vetrata, un campanellino aveva tintinnato, e lei era entrata lasciandosi avvolgere dall’aria calda e luminosa che c’era tra i tavolini e il bancone di legno. Lui era lì, seduto con qualcuno che lei non conosceva: lo ignorò, si sedette, si fece servire del the. Gli dava le spalle e per nessuna ragione al mondo si sarebbe mai girata verso la sua direzione. Bevve con calma il suo the, consultò qualcosa nella sua agenda, si accese una delle sue sigarette, poi, una volta pagata la consumazione al cameriere, si alzò dal suo tavolo e prima di uscire disse soltanto: addio, a voce alta, a tutta la sala, ma senza riferirsi a nessuno.
Quando raggiunse il marciapiede riprese a camminare come prima, ma pur stringendosi nel suo paltò le pareva d’essere una persona diversa da sempre, e anche quando si accorse di piangere, pur con tutto il bisogno che aveva di chiarezza, non riuscì neppure a capire se lo faceva per la gioia, o al contrario, per un dolore fino ad allora sopito.
Bruno Magnolfi
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