Cesarino tirava tardi, come sempre faceva quando passava da lì,
appoggiato al bancone del bar con l’immancabile sigaretta, mentre mio
padre proseguiva ad ascoltare divertito i suoi ragionamenti leggermente
strampalati, e soprattutto a sistemare tazzine e bicchieri, preparando
tutto quanto sarebbe servito per la nuova giornata di lavoro, la
serranda del locale mezza abbassata, le sedie sui tavoli, quasi a
chiarire a chiunque fosse passato da lì che il bar era chiuso, e che era
permesso soltanto a qualche vecchio cliente di entrare ed acquistare un
pacchetto di sigarette, o al massimo farsi una bevuta veloce.
Io a quell’ora in genere tiravo lo straccio sul pavimento, nonostante
la mia giovane età, e d’altronde non avevo avuto alcuna voglia di
continuare a studiare; ma in ogni caso, quando si fermava con noi, lo
guardavo sempre con grande curiosità, quell’ultimo cliente del giorno,
anche soltanto con la coda dell’occhio, perché mi pareva il più
stravagante di tutti, un uomo che si vedeva solo ogni tanto da queste
parti, e che sembrava avesse la necessità, almeno in quelle serate, di
trovare qualcuno che stesse ad ascoltare le cose che aveva da dire,
storie balzane generalmente, durante le quali non entrava mai troppo
dentro ai dettagli, lasciando i discorsi un po’ in aria, quasi per il
gusto di tenere tutto in sospeso, o solo parzialmente spiegato.
In genere Cesarino parlava di sé, di ciò che faceva o di quel che
pensava degli altri, persone che sembrava conoscere soltanto lui; ma a
volte, parlando di qualcuno, pareva quasi cercasse di darci una
descrizione di sé, girando con le parole attorno ad un personaggio
sfuggente, ma che in fondo neppure gli assomigliava, quasi che il suo
tentativo fosse quello di far coincidere la sua persona con un’idea di
se stesso appena abbozzata, che in qualche modo sembrava girargli in
modo ossessivo dentro la testa. Anche seguendo con attenzione ciò che
aveva da dire, era inutile perfino proporgli delle domande: normalmente
neppure rispondeva; si limitava a storpiare la bocca in un mezzo
sorriso, fare una pausa per bere un piccolissimo sorso dall’immancabile
bicchierino del suo brandy preferito, che in genere riusciva a farsi
bastare per tutta un’intera serata, e poi riprendeva a parlare
esattamente da dove si era interrotto, come se niente potesse
distogliere il suo tentativo di spiegare ciò che davvero aveva dentro la
mente.
Mi piaceva quel suo modo di fare: mi pareva quello di una persona
rimasta come in sospeso tra una solitudine estremamente opprimente,
seppure tollerata in qualche maniera, ed una socialità conflittuale con
la quale tentava di contrastare la sua natura da animale notturno, a suo
agio soltanto quando le persone in circolazione diventavano poche.
Adesso non riesco a ricordare neppure come fosse il suo modo di vestire,
tanto quel dato appariva poco influente nella sua personalità. Ciò che
subito ricordavi di lui era la faccia: l’espressione di chi cerca di
ridere non riuscendoci mai, di chi parla non prendendosi neppure una
volta sul serio, di chi sa che la serata è finita, ma non riesce a
convincersene ancora, e pur di rinviare questa consapevolezza è pronto
ad affrontare l’umido delle strade di notte, e l’odore di disinfettante
nei locali in chiusura.
L’ultima volta che lo vidi, Cesarino, come lo chiamavano tutti anche se
forse non era neppure questo il suo vero nome, mi guardò fisso,
cercando come di comprendere cosa stessi pensando. Poi mi indicò
qualcosa per terra mentre stavo spazzando il pavimento del bar, forse
una cicca, o un pezzetto di carta, non so. E’ importante far le cose per
bene, mi disse. Ti sentirai sempre una persona migliore, subito dopo.
Poi uscì dal locale.
Bruno Magnolfi
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