mercoledì 29 settembre 2010

Una traccia da seguire per forza


Sto qua, seduto, e non c’è nessuno che mi chieda di fare qualcosa, di pensare, di muovermi o di raggiungere un luogo diverso da questo. Perciò resto qua, seduto, e osservo con attenzione le venature del legno sul piano del tavolo. Mi sono sempre perso con facilità in cose del genere, in piccoli dettagli senza apparente significato, ho sempre fatto così sin da quando ero piccolo, non trovo assolutamente motivo per cui dovrei comportarmi in un modo diverso. Il mio dito scorre il profilo liscio del tavolo, i miei occhi lo seguono, fino allo spigolo.

Poi si apre una finestra dentro di me, qualcosa pare volteggiare nell’aria, nella penombra della mia stanza, da qualche parte sui muri o attorno alla lampada spenta. Mi guardo attorno, cerco di immaginare quale piccolo elemento possa sfuggire al controllo, poi lascio perdere, riprendo il mio studio profondo delle venature del tavolo. Può essere stato un rumore, penso, oppure il ricordo di qualcosa che adesso non riesco neppure ad identificare: certe volte i miei sogni o i miei pensieri sono forti, urlano da soli nella mia testa, mi tengono inchiodato per giorni a guardare sempre la medesima immagine, poi sfumano, dissolvendosi in niente.

Le venature del legno corrono attorno ad un nodo, conosco perfettamente il loro disegno, la loro maniera per dar spazio alle fibre. Il nodo ha una forma ovale più chiara, è l’embrione di qualcosa ma a me non interessa particolarmente, mi piace soltanto che le venature si allarghino, per lasciargli lo spazio che serve. E’ un’immagine unica, penso, un disegno fatto una volta per tutte, irripetibile, ed è qui, sotto alle mie dita che scorrono la sua superficie.

La mia è un’attesa, penso, ma non so cosa attendermi, se non l’ora dei pasti o quella per stendermi a letto. Qualcosa emerge di nuovo dal buio, volteggia nell’aria come prima, ma adesso si posa sopra di me, sulla mia mano aperta sopra la superficie del tavolo. Resto immobile, riconosco una variabile al flusso di tutte le cose che potrebbe solo in un attimo scomporre l’equilibrio che cerco. Appoggio la faccia sul tavolo, gli occhi ben aperti ad osservare la mano, poi attendo con pazienza infinita che il momento si compia.

Infine chiudo gli occhi, le venature del legno si muovono, le sento sotto la mano, qualcosa scorre lentamente lungo la superficie del tavolo. Allora torno ad assumere la mia solita posizione, seduto, senza niente che mi suggerisca di variare qualcosa. A volte mi chiedono se i miei pomeriggi non appaiono lunghi trascorsi così, ma io non rispondo: inutile gridare da dietro ad una finestra ferrata come spesso fanno gli altri. Io resto qui, lo studio della superficie del tavolo assorbe moltissimo del tempo che ho, ma non me ne lamento: la vita non sarà infinita, penso, devo proseguire il lavoro, devo trovarne la sua conclusione.

Bruno Magnolfi

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