venerdì 3 dicembre 2010
Il viaggio.
Si doveva partire, chissà poi perché, anche se sembrava del tutto inevitabile. Ci eravamo riuniti in quell’appartamento, in attesa della notte, quando il momento sarebbe stato più propizio. Si scherzava, si diceva con convinzione che la nostra partenza sarebbe stata l’inizio di tutto quanto il resto, senza sapere con precisione quale domani avremmo dovuto attenderci, ma forse solo per mostrarci fiduciosi sulla nostra capacità di affrontare il futuro. Tutti quanti si occupavano di qualcosa, scontrandosi avanti e indietro nella febbrile preparazione dei bagagli, io invece mi sentivo stanco, per questo mi ero sdraiato su un divano, e mentre intorno tutti parevano nervosi, tutti presi dai preparativi, al contrario in me era come scesa una completa calma, una perfetta indifferenza verso ciò che sarebbe potuto accadere.
Qualcuno poi mi aveva toccato un braccio, mi aveva scosso, aveva richiesto la mia attenzione, giusto per dirmi che eravamo pronti, che tutto era stato ormai sistemato. Così mi ero tirato su, avevo osservato gli altri, mi ero reso conto che dovevamo abbandonare tutto, ormai niente ci teneva ancora attaccati a quel nostro passato. Eppure, mi pareva che una riflessione finale fosse importante, come se si dovesse riassumere un ricordo in pochi pensieri, forse soltanto in uno sguardo, e condensare in un gesto superiore, come era quello di andar via, ciò che fino a quella sera era stato importante per noi tutti.
Così guardai le borse, gli zaini, le valigie, tutti i bagagli pronti che avremmo portato con noi, come fosse fondamentale traghettare, da ieri fino a domani, qualcosa di riconoscibile, di familiare, di consueto. Si capivano i vestiti pesanti, per affrontare le notti fredde, gli oggetti a cui eravamo legati, quelli che ci sarebbero potuti tornare utili, e ancora le fotografie che ci ricordavano qualcuno, e i libri, che ci mostravano ancora le radici, e i nostri documenti, che ci consentivano, almeno per un po’ di tempo, di sapere chi noi fossimo.
Passeggiai a lungo per le stanze, osservai tutto, mi soffermai sui mobili vuoti, sugli scaffali liberi, i letti inutili. Provai una tristezza indicibile, mi parve in un lampo che non saremmo più tornati, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto a quegli oggetti, e mi sentii sul punto di abbandonare ogni proposito. Poi qualcuno mi mise una mano su una spalla, senza dire niente, solo mostrando quanto ognuno di noi fosse costernato in quella fase.
Lasciai perdere ogni nostalgia, c’era qualcosa di estremamente più importante che attendeva il nostro impegno, così radunai tutti nell’ingresso, ci guardammo ancora per un attimo, come scambiandoci la consapevolezza di quanto, da quel momento in avanti, c’era da affrontare; poi iniziammo a caricare tutti i nostri bagagli. Non ci sarebbe stato niente di male, pensavo, se qualcuno in quel momento si fosse sentito privo di coraggio, avesse detto agli altri, magari tra le lacrime, che non se la sentiva proprio, che quel viaggio non era fatto per lui, anche se ne era profondamente dispiaciuto. Invece a nessuno passò per la testa un’idea di quel genere.
Infine abbandonammo l’appartamento, e con lui tutte le nostre certezze, e quando, ormai nel pieno del destino che si concretizzava davanti ai nostri sguardi, pensammo che orami sarebbe stato impossibile anche solo tentare di tornare indietro, ci sentimmo orgogliosi, convinti delle nostre forze e delle convinzioni che avevamo messo in campo: così doveva essere, e così stava manifestandosi la nostra volontà, forse oltre ciò che ogni buon senso avrebbe chiesto.
Bruno Magnolfi
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